C’è una diffusa convinzione che il nostro sistema giudiziario, e in particolare quello carcerario, sia molto “permissivo”, lassista, che in fondo chi commette un reato, a differenza di quanto magari avviene altrove, la passi liscia più facilmente, esca prima di prigione e abbia una vita più comoda. Del resto quando viene chiesta nei sondaggi un’opinione sulla sicurezza, la percezione della grande maggioranza degli italiani è che i reati siano in aumento, anche se in realtà i dati sono sempre più in calo (sondaggio Swg di gennaio 2023).
L’Italia non è certo il Paradiso in terra per chi finisce in carcere. Il nostro Paese è tra quelli con maggiore sovraffollamento carcerario: 105,5 posti ogni 100, contro una media europea di 82,5. In Spagna il tasso di occupazione delle celle è del 73,6 per cento, in Germania dell’81,6 per cento, mentre la situazione francese è più simile a quella italiana, con il 103,5 per cento. Ciò accade nonostante in prigione ci finiscano meno persone che altrove, 90 ogni centomila abitanti, rispetto a un dato europeo di 116,1.
Come vengono trattati i detenuti? Innanzitutto con lentezza, che di per sé può essere anche una tortura se si lascia un essere umano senza la certezza di una pena. È ciò che accade al 31,5 per cento dei carcerati italiani. A batterci in questa statistica l’Albania e l’Armenia, con cifre molto alte, e poi Paesi piuttosto piccoli. Tra i nostri vicini più rappresentativi rappresentiamo un record. Ad attendere una sentenza definitiva sono solo il 15,6 per cento di coloro che occupano le carceri spagnole, il 14,6 per cento di coloro che finiscono in quelle inglesi e il 20,7 per cento di quanti vengono rinchiusi in Germania.
Un altro indicatore peculiare è quello che riguarda la presenza di stranieri dietro le sbarre. Sono ben il 32,4 per cento, anche in questo caso più della media del 23,2 per cento, e più di quanti ve ne siano nelle carceri di Paesi con una percentuale maggiore di immigrati, come Regno Unito, Francia, Germania. Non ci sono dunque trattamenti di favore verso gli stranieri, come invece propagandato da una certa vulgata, ma, soprattutto, questi dati mostrano come la gestione delle prigioni italiane sia ancora più complessa proprio per la compresenza di culture diverse, spesso poco integrate.
I detenuti italiani sono i più anziani di tutta Europa. A superare i 50 anni sono ben il 26,7 per cento, più del doppio che in Francia. Questo primato è dovuto al fatto che siamo tra i più vecchi, con un’età media di 46 anni? No, non può bastare questa spiegazione. Le differenze con le altre realtà sono molto più ampie di quelle demografiche.
Sono più della media anche gli over 65 dietro le sbarre, il 4,2 per cento. Che sia colpa dei boss della criminalità organizzata, notoriamente non giovanissimi? Quanti possono essere su più di cinquantatremila carcerati, di cui “solo” il 18,5 per cento sconta pene per reati di omicidio?
La verità è che non vi sono poi così tanti benefici legati all’età o alla salute come si potrebbe pensare. Del resto, e forse questa potrebbe essere una sorpresa, in Italia si sta di più in carcere. Il Consiglio d’Europa, che fornisce la maggior parte dei dati citati, ha calcolato, sulla base del flusso di entrata e uscita dagli istituti di pena, che in media vi si passano 18,1 mesi. Può sembrare poco, ma si deve considerare che si può fare ingresso in prigione più di una volta, e che spesso vi è un rilascio di chi sconterà la condanna ai domiciliari. E, soprattutto, si tratta comunque di una durata maggiore della media, che è di 12,4 mesi. Ad alzarla i Paesi dell’Est e del Sud Europa, come il nostro, la Grecia, la Spagna, il Portogallo. Altrove si sta meno dietro le sbarre, 8,4 mesi in Inghilterra, 11,1 in Francia, solo 4,7 in Germania.
Bisognerebbe costruire più istituti di pena, reclutando più personale? Oppure basterebbe spendere meglio, visto che in Italia ci sono 1,3 detenuti per dipendente del sistema carcerario. La media europea è 1,5, come quella di Francia, Germania, Inghilterra. In Spagna sono 1,9. Forse sono distribuiti in modo poco efficiente?
In realtà probabilmente è poco efficiente la spesa totale, che ammontava nel 2020 a quasi 3 miliardi di euro, per la precisione due miliardi e 982 milioni. È lo 0,3 per cento di tutta la spesa pubblica, lo 0,17 per cento del Prodotto interno lordo, una percentuale superata solo in alcuni Paesi dell’Est. L’impegno finanziario tedesco ammonta per esempio al 0,1 per cento del Pil. Potrebbe sembrare una differenza lieve, ma in realtà se spendessimo come in Germania (in proporzione al PIL) risparmieremmo 1,2 miliardi.
Si tratta di un esborso che appare poco giustificato dalla densità carceraria. È simile o superiore, sempre rispetto alle dimensioni dell’economia, nei Paesi Baltici o in Cechia e Slovacchia, dove però vi è una quantità doppia di detenuti per abitante, mentre laddove la loro incidenza è analoga alla nostra lo Stato spende meno.
L’analisi del nostro modello giudiziario dovrebbe partire da questi numeri, e ciò vale anche e soprattutto per chi difende l’esistente. Anche per chi pensa che i garantisti che avanzano dubbi sul sistema, sull’assenza di una vera riabilitazione, magari persino sul 41 bis, siano quattro idealisti lontani dalla realtà. Molto probabilmente la vera lotta alla criminalità è possibile anche con più umanità, sicuramente con una maggiore efficienza, che spesso è, del resto, propedeutica alla prima.