In merito alle operazioni che hanno portato alla nascita del terzo polo alternativo al bi-populismo, andrebbe misurata l’efficacia politica dell’assist che Renzi ha indirizzato verso Calenda più che la moralità del tradimento della parola data a Letta con il dono di un bacio. Quanto sia “laudabile”, anche in politica, mantenere la “fides” è evidente. Persino secondo le pagine più scandalose di Machiavelli, in astratto, si tratta di un principio che nel suo valore “ciascuno lo intende”. Se i politici fossero nelle loro azioni tutti lealmente “fondati in su la realtà”, non ci sarebbero ostacoli alla assunzione di atteggiamenti improntati alla correttezza reciproca.
Letta non ha dovuto negoziare solo con Emma Bonino, che suole “vivere con integrità” e la cui parola, una volta data, conserva un sicuro vincolo. Ha incrociato altri politici che, invece, procedono con “astuzia” e sembrano capaci di saltare tra le apparenze e le dissimulazioni del potere economico-mediatico. È infatti probabile che possieda l’arte del simulare quale abito quasi congenito un politico come Calenda, il quale ha seguito un percorso formativo nella scuderia proto-grillina del Corriere di Mieli, che, ancor prima del comico genovese, inveiva contro “la casta”, e della fondazione di Montezemolo, che, prima del motto “uno vale uno”, proponeva che i senatori della Repubblica venissero non più eletti bensì scelti con il sorteggio. È inutile adesso invocare il precetto “pacta sunt servanda” e buttarla in una sterile recriminazione morale contro un politico dipinto come narcisista e senza faccia, incapace di “mantenere la fede”.
Letta confessa di aver avuto nella trattativa con lui uno sviamento dettato dall’ingenuità. Il segretario del Pd, che si presenta con gli “occhi di tigre”, ha confermato l’assunto per cui “el lione non si difende da’ lacci”. Anche se leone non è, se non nelle forti metafore pronunciate, come un impacciato leone è però caduto nella trappola della volubile volpe. Ribadita la validità della regola generale di Machiavelli (“Non può pertanto uno signore prudente né debbe osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni questo precetto non sarebbe buono: ma perché È sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime da colorire la inosservanzia”), occorre solo appurare se nel caso di Calenda le “cagioni legittime” della rottura della parola sottoscritta risultino anche effi caci.
Rispetto a Letta, egli “ha saputo meglio usare la golpe”, ma con i suoi inganni e con la simulazione (arte di “parere di avere” qualità) non sposta i reali rapporti di forza. La pura denuncia della degradazione etica di una figura che all’improvviso rompe il patto di onore con il Pd allontana dalla politica intesa come prassi che non si piega al canone della morale. Lo spergiuro Calenda compie una mossa tattica in vista di una prova di forza, pensare perciò di misurare la sua condotta come si valuta la lealtà di un soggetto privato conduce fuori strada. Non mancano esempi, come dichiara Machiavelli, di politici che sono senz’altro da celebrare per “avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare È cervelli”.
Il problema è sempre il risultato effettivo del tranello che Calenda ha inteso fare al Pd dopo essersi speso nella recita come secondo “front runner” del campo progressista. È riuscito il leader di Azione ad usare bene e in maniera redditizia la pratica del raggiro? Ha saputo “colorire la inosservanzia”, direbbe Machiavelli, cioè giustificare e legittimare la parola tradita con il raggiungimento tangibile di un qualche obiettivo politico realistico? Non sembra, per un aspetto almeno. Poco credibile risulta il suo racconto di vittima, raggirata da uno scaltro Letta che ha inopinatamente allargato l’alleanza ai “comunisti” (ma proprio il leader di Azione è uno dei pochi politici ancora in giro ad avere avuto la tessera del Pci in tasca). Questa chiacchiera di vittima che si lamenta di un torto subito non fa onore all’uomo dei tweet che, spinto da qualche cinguettio social a cui non ha saputo resistere, ha mostrato di possedere una leadership fragile, che segue il vento delle opinioni, non le indirizza.
È presto per dire se Calenda può, con qualche fondamento, sostenere che “l’opere mie/ non furono leonine, ma di volpe”. L’amico “Corriere” (sedotto però pure dalla Meloni la quale, dopo l’innamoramento di Galli della Loggia, riceve le carezze anche di Panebianco che la celebra come “una leader indubbiamente capace e carismatica”) lo dà già oltre il 10%. Questi numeri in libertà, che contrastano le stime più verosimili delle fortune elettorali calendiane ferme al 2%, servono solo per conferire una forza artificiale all’operazione. Il calcolo politico calendiano, non privo di un fondamento, è che potrebbe risultare più vantaggioso per il suo partito personale uscire da una micro-coalizione che dispera della possibilità di vittoria. Meglio correre non tanto da solo (le 70mila firme non riuscirebbe a raccoglierle ora che anche in Ztl molti sono in ferie) quanto con il soccorso di un amico, il rivale acerrimo Renzi (già più forte di lui nei numeri, concedendogli anche il simbolo, costringerebbe Calenda ad un tendenziale stato di minorità politica, con l’aggiunta della pena accessoria di dover convivere con il grillino delle origini Pizzarotti).
Il problema di Calenda è che, come si sa, “la golpe non si difende da’ lupi”. La sua ricerca dei benefici della corsa solitaria di un numero uno incontra dei lupi pronti ad approfittarne. È infatti evidente che i dieci-quindici seggi che il terzo polo (salutato con tutti gli onori da Stefano Folli su Repubblica che dipinge una aggregazione ferma al 4-6% come un evento sistemico epocale) può aggiudicarsi nel proporzionale si trasformano in 20 deputati regalati alla destra nei collegi uninominali. Non solo i seggi del solitario Calenda sono alla fine inferiori rispetto a quelli che avrebbe ottenuto restando insieme al Pd, ma la sua rottura con Letta regala proprio alla nemica nera dell’agenda Draghi un successo che si annuncia di proporzioni numeriche allarmanti.
Se esistono politici che hanno “fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto”, in questa categoria al momento è arduo ricomprendere Calenda, non tanto per aver osato ma per non aver valutato l’impatto delle regole con cui si gioca la contesa. Tutta la sua astuzia manovriera, che denuncia i patti perché calcola che “tale osservanzia gli torni contro”, si riduce, in presenza della legge Rosato, a fornire un soccorso a Meloni e Salvini che possono confezionare una maggioranza sovran-populista e, con numeri mai raggiunti, minacciare preziosi spazi di libertà. La “golpe” pariolina, avvezza “a conoscere È lacci”, con il non “osservare la fede” ha teso una trappola che ha fatto cadere Letta, ma non è certo diventata grazie al suo gesto eclatante “lione a sbigottire È lupi”. Come attesta Mannheimer, il presunto “magnete” non attrae neppure un voto dal centro-destra e con “la infidelità” sua regala invece un plusvalore in seggi al nemico principale che ha annichilito Draghi. Dopo che le concordate “promesse sono state fatte irrite e vane”, Calenda non ha saputo “ben colorire” le sue simulazioni e dissimulazioni, e se affossa i suoi antichi alleati non graffi a i suoi nemici dichiarati.
Ad ogni seggio che va a Calenda nella quota proporzionale ne corrispondono due che sono offerti in dote alla destra radicale nei collegi uninominali. La dichiarazione che, subito dopo il voto, è pronto a riprendere il dialogo con il Pd per un nuovo governo Draghi è, con questo sistema elettorale, semplicemente una moina. Il paradosso della rottura è di scalfire piccole quote di consenso a Berlusconi e di lasciare così alla coppia nero-verde una maggioranza numerica autosufficiente, il che rende ardua la scomposizione del campo avversario per riprendere le manovre trasformistiche in Aula. Se Renzi, punito da Letta e costretto a rimanere fuori dalla coalizione, era giustificato con il suo spirito combattente a cercare le vie di salvezza in autonomia, Calenda invece, anche nelle immagini, pareva muoversi con Letta come il signore che dava gli ordini, e quindi nella sua scelta di rottura rimane un che di imponderabile. Con Renzi non potrà certo permettersi di occupare la scena come l’attore centrale.
Rimane del suo gesto di uscita dalla coalizione, come una eredità rischiosa, una perdita di “riputazione”, che lo presenta al pubblico come leader inaffidabile (secondo il social sentiment, negli oltre 3 milioni di tweet le reazioni negative al suo gesto sono dell’84%), maestro dell’inganno che esalta la verità e i valori ma solo per procedere poi in senso opposto (“e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare e con maggiori iuramenti affermassi una cosa che la osservassi meno”). Bene avrebbe fatto Calenda ad attenersi al precetto di Machiavelli: “Non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato”. Non essendo comparsa alcuna provocazione del Pd, tale da giustificare come “necessitato” un atto gratuito di rottura che lo consegna alla cronaca come uno spergiuro, l’efficacia dell’azione politica avrebbe consigliato, dato il vincolo stringente della legge elettorale, di non allontanarsi dalla correttezza e dalla lealtà richieste dall’accordo di coalizione solennemente siglato per contenere questa destra. Ha tratto così in inganno la tigre di carta che per lui ha rinunciato ai grillini, trovandosi alla fine con nulla in mano, ma non i lupi reali che brindano già perché annusano la certa conquista del potere. Ora che ha ricevuto, ma soltanto per un mese, il bastone del comando (dal solo politico “Chirone centauro” di oggi che, sapendo dosare la bestia e l’uomo, decide un passo indietro), Calenda farebbe bene a non stare molto sereno: il prevedibile big bang del centro-sinistra alle elezioni travolgerà tutti i numeri uno di adesso.
L’articolo Come è nato il Terzo Polo: quali voti può raccogliere l’alleanza tra Calenda e Renzi proviene da Il Riformista.