Un anno fa, estate 2021, tutti avrebbero giurato che la crisi dei chip, la scarsità di microprocessori sul mercato mondiale, si sarebbe conclusa entro Natale. Quello dello scorso anno, beninteso. Poi la meta si è spostata alla primavera scorsa. Poi all’estate. Ma intanto si sono cominciati a fare i conti. E si è capito che il problema non è più solo legato ai produttori di auto europei che avevano sbagliato calcoli e previsioni con la chiusura per Covid delle fabbriche asiatiche.
È chiaro, l’automotive europeo è stata la prima vittima. A fine 2021 si stimano in 11,3 milioni le auto non prodotte per mancanza dei chip che vanno nei motori, negli airbag, nei sistemi di frenata, nell’assistenza alla guida, nell’aria condizionata e perfino nelle autoradio. La produzione europea è andata giù del 34%, tornando ai livelli di fine anni ‘70. Ma il contagio si è allargato anche stavolta.
Nei giorni scorsi hanno annunciato rallentamenti alle produzioni e impossibilità di evadere ordini sia Tata, specie con i suoi marchi di fascia alta Jaguar e Land Rover, sia Ford e General Motors dall’altra parte dell’Atlantico. Da questa parte, sono arrivati nuovi warning targati Stellantis e Renault. Ora la speranza è di tornare a una normalizzazione per la primavera 2023.
Un po’ troppo per essere solo l’effetto della chiusura delle fabbriche cinesi, malesi e vietnamite a causa del Covid e per il successivo intasamento dei grandi porti asiatici. Sotto c’è di più. C’è anche di più delle sole ragioni geopolitiche, quelle che sono partite con i bandi trumpiani verso le tecnologie cinesi e che hanno portato all’esclusione del mercato americano di Huawei (siamo nel maggio 2019) e finiscono, per ora, con le rinnovate mire cinesi su Taiwan, a cui oggi fa capo la maggior quota di mercato mondiale di produzione di semiconduttori: il 22%.
Ce n’è abbastanza per innescare una gigantesca corsa agli investimenti per raddrizzare questi squilibri e riportare la produzione di chip più vicina ai mercati di sbocco, per una maggior tutela dalle tensioni geopolitiche e dalle difficoltà impreviste, ma non irripetibili incontrate dalla filiera logistica.
Le fabbriche di chip, le cosiddette fonderie, sono ormai degli impianti di grande dimensione, necessitano di grandi servizi accessori in termini di energia e acqua, sono anche ad altissima tecnologia. E si fanno dove ci sono i soldi, ossia dove ci sono Stati che mettono fondi pubblici per attirare i capitali privati.
La Cina ha messo 97 miliardi di dollari con il suo piano 2014-2024 per colmare i suoi ritardi e arrivare all’attuale 15% di quota di mercato partendo da zero. Ora, con la crisi attuale, sono le grandi economie occidentali a correre ai ripari. Così Stati Uniti e Giappone, che hanno appena varato piani rispettivamente 52 e 6,2 miliardi di dollari. La stessa Taiwan aumenta i suoi investimenti all’estero visti i rischi che corre l’isola. Manca solo l’Unione europea: la Commissione, il governo dell’Unione, ha varato un piano da 43 miliardi di euro. Ma deve ancora passare al vaglio del Parlamento. Una valanga di denaro per ridisegnare a livello planetario la geografia di un’industria strategica.
Al fondo di tutto, infatti, c’è che è entrato in crisi il modello di globalizzazione che ha funzionato finora. È saltata l’efficienza della divisione mondiale del lavoro che ha portato alla delocalizzazione in Asia della parte più manifatturiera della produzione di chip ossia le fonderie e il packaging, ossia la produzione delle fette di silicio e il loro inserimento dentro il prodotto finale, i chip che vengono impiegati nei nostri smartphone, nei pc, nelle auto, e nei miliardi di sensori che stanno dando vita all’internet delle cose.
«Non c’è stata una sola causa alla base della mancanza di semiconduttori – afferma Giuseppe Collino, managing director e partner di Bcg, Boston Consulting Group – ma molte concause assieme. L’automotive è stato colpito perché con il mercato fermo per i lockdown da Covid i big dell’auto hanno rallentato gli acquisti dai fornitori, e poi si sono trovati a ripartire tutti assieme in un mercato paralizzato dalla super domanda. Infatti chi ha scelto di prendersi il rischio di non rallentare la catena della fornitura, come Toyota, non si è trovato in queste situazioni. Ma l’auto vale solo il 10% della domanda globale di semiconduttori. Alla crisi ha contribuito moltissimo il boom di domanda di pc, tablet e smartphone per il remote working e per l’uso domestico durante i mesi delle clausure da Covid e il balzo della digitalizzazione in molti settori. C’è ancora da dire che i chip per pc e telefonia mobile sono tipicamente più avanzati e hanno un ciclo di vita più breve di quelli per l’auto, e questo ha fatto crescere ancora di più la domanda. Se poi aggiungiamo fenomeni di accaparramento e speculazione, il quadro è completo».
È così che siamo arrivati alla fine della parabola che in un ventennio o poco più ha portato tutti i big mondiali dei microprocessori, da Intel a Amd, da Ibm a Texas Instruments a Qualcomm, in Europa da Siemens a Bosch, a Stm a cedere le loro divisioni manifatturiere ai nuovi soggetti asiatici emergenti. Ora si torna indietro: lo scorso febbraio la stessa Intel ha comprato l’israeliana Tower Semiconductors: ha pagato oltre 5 miliardi di dollari l’ultimo nome della topten mondiale, a cui fa capo solo l’1,3% delle vendite globali del settore.
I numeri come sempre, sono in grado di fotografare in modo nitido che cosa è successo in questi 20 anni. A fine anni ‘90 l’Europa produceva il 44% di tutti i chip mondiali: una leadership frutto del boom della telefonia mobile, quando i produttori europei, Nokia soprattutto ma anche Siemens ed Ericsson facevano assieme i tre quarti delle vendite mondiali di telefonini.
Allora nei chip gli Stati Uniti seguivano con il 33%, il Giappone al 19%, Taiwan l’1% e la Cina non esisteva. Alla fine del 2020 le quote erano le seguenti: Europa 9%, Usa 12%, Giappone 15%, Taiwan 22%, Corea del Sud 21% e Cina 15%. Da allora le cose sono andate ancora peggio e oggi la quota europea è scesa attorno all’8%.
Gli Stati Uniti hanno dimezzato la loro quota, noi l’abbiamo ridotta quasi ad un sesto. E non c’è solo la quantità ma anche la qualità. «L’Europa ha smesso di investire in ricerca e sviluppo nel settore, rispetto a Taiwan, Corea e Cina – spiega Paolo Trucco, docente di Risk management industriale al Politecnico di Milano – Oggi l’industria europea è ben posizionata sui chip per le esigenze dell’automotive attuale e per i grandi sistemi di automazione industriale, ma non c’è nei chip più hi-tech richiesti dal mercato, quelli sotto i 10 nanometri (un nanometro è un miliardesimo di metro, ndr). Sono i chip per le tlc, le smart tv e le consolle dei videogiochi, la mobilità, le auto elettriche e, tra poco, quelle a guida autonoma».
Insomma, a farla breve, l’Europa 20 anni fa si è tenuta quello che allora era il segmento più ricco e lì è rimasta mentre il mercato spingeva soprattutto verso la miniaturizzazione, la durata delle batterie, gli schermi tattili. Il boom degli smartphone non è già più targato Europa: noi li compriamo solo.
Oggi il Vecchio Continente ha tre campioni nel settore. L’olandese Nxl che, paradossalmente, è la leader mondiale nei chip che fanno funzionare le macchine che producono i chip in Asia; la tedesca Infineon, la ex Siemens Semiconductors, e la italo-francese St Microlectronics, entrambe ben posizionate nel settore auto e automazione.
Sono tutte e tre nelle prime 25 al mondo del settore per capitalizzazione, ma il problema è che non hanno più attorno una filiera. St, per esempio, progetta i suoi chip per l’automotive e l’industria 4.0, li produce in parte in Europa in parte nei suoi stabilimenti in Marocco, Malesia, Filippine, Cina. Ma ha delocalizzato quasi interamente in Malesia le fasi di collaudo e packaging, ossia l’assemblaggio dei chip prodotti: per questo ha subito nell’ultimo anno e mezzo tutte le vicissitudini legate alle chiusure di fabbriche e porti per il Covid. E comunque compra dal numero uno mondiale, la taiwanese Tsmc, un 20% di chip di dimensioni più piccole. D’altra parte nel libro clienti di Tsmc c’è il gotha dell’hi-tech mondiale, da Apple e Intel in giù.
Ecco dunque la corsa a riportare produzioni in occidente. Stati Uniti e Giappone hanno già varato i loro piani. L’Unione europea ancora no. Ma gli obiettivi posti sul tavolo da Ursula von der Leyen sono già fissati nell’European Chips Act varato lo scorso febbraio.
Il primo principio di queste linee guida è chiaro: «Rafforzare la sovranità digitale Ue». Per farlo entro il 2030 si metteranno assieme risorse per 43 miliardi di euro con l’obiettivo di raddoppiare la quota mercato europeo nel mondo, riportandola attorno al 20%. Il che significa, di fatto, quadruplicare gli attuali livelli di produzione.
Ci sarà da ridisegnare regole per favorire la commistione tra investimenti pubblici e privati e attrarre gli investimenti esteri. Bisognerà riportare in Europa tutti pezzi della filiera: fonderie, progettazione e packaging. Dove e come è ancora tutto da definire. Ma è stato siglato un primo accordo con Intel (che realizzerà tre impianti: una fonderia in Germania, un impianto di packaging in Italia e uno di design e progettazione in Francia) e sono appena di giugno scorso i primi contatti con la Tsmc di Taiwan.
Non sarà una cosa rapida: i tempi per la realizzazione di una fonderia “greenfield”, ossia partendo da zero, sono di circa tre anni. Lo sanno bene in Stm, che sta per avviare la produzione nel suo nuovo impianto di Agrate, in Lombardia: è un progetto avviato nel 2018, prima della crisi.
Il costo iniziale, di 2miliardi, è già lievitato a 3: ma si spiega: viste le grandi necessità di spazio di queste produzioni e l’alta urbanizzazione tipica dell’Italia, l’impianto è una specie di cattedrale che si sviluppa per una gran parte nel sottosuolo, consolidato da 1.600 pali per azzerare le vibrazioni che possono disturbare la produzione.
È un impianto integrato, ha perfino la fonderia per produrre chip, con una grande clean room i locali asettici in cui i chip vengono prodotti. Per fortuna Stm ha già trovato un partner che l’aiuterà a sostenere i costi: è l’israeliana Tower Semiconductors, numero 10 mondiale delle fonderie, appena acquisita da Intel, che occuperà il 50% della clean room. Nel resto Stm produrrà chip per l’automotive di nuova generazione, quelli per le auto elettriche e per le auto a guida autonoma.
Un altro investimento sarà invece a Grenoble, in Francia, dove si amplia un altro impianto Stm, stavolta in partnership con l’americana Global Foundries, la numero 4 mondiale. L’industria europea è insomma già sulla strada giusta, ma senza i soldi e le nuove regole dell’Unione europea, da sola non può andare lontano.
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