Non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. Quando si stava peggio, si stava peggio. È che molte cose non si sanno, o si dimenticano. Gianni Amelio con il suo Il signore delle formiche, non ha solo il merito di riprendere un filone cinematografico che sembrava smarrito: il cinema “civile”, dei Marco Bellocchio e dei Damiano Damiani, dei Carlo Lizzani e dei Nanni Loy, degli Elio Petri e dei Francesco Rosi, dei Giuliano Montaldo, per citare solo alcuni grandi registi. Amelio con Il signore delle formiche ci riporta alla fine degli anni Sessanta, quando si celebra un processo che fa scalpore: un intellettuale, Aldo Braibanti, viene condannato a nove anni di carcere, accusato di “plagio”: aver cioè sottomesso alla sua volontà, in senso psicologico e fisico, un suo studente e amico da poco maggiorenne.
La famiglia del ragazzo fa in modo che sia rinchiuso in un manicomio (allora esistevano, Franco Basaglia ancora non ha cominciato la sua lotta per il superamento di quelle terribili istituzioni), sottoposto a un incredibile numero di elettroshock, allo scopo di “guarirlo” dall’influsso malefico e diabolico di Braibanti. La “colpa” vera dei due è quella di essere omosessuali, di volersi bene. La vicenda è il pretesto per imbastire un processo politico e una vera e propria caccia alle streghe. Pochi hanno l’ardire e il coraggio di opporsi a quella deriva clerical-reazionaria: Piergiorgio Bellocchio, Umberto Eco, Franco Fortini, Vittorio Gassman, Giovanni Jervis, Dacia Maraini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Cesare Musatti, Pier Paolo Pasolini, Marco Ramat… “l’Astrolabio” di Ferruccio Parri e Mario Signorino, con i puntuali articoli di Giuseppe Loteta; e Marco Pannella, già allora leader e anima del Partito Radicale. Pannella in particolare con la sua martellante campagna su “Notizie Radicali” non solo segue passo passo le udienze dei processi nei confronti di Braibanti; opera perché i magistrati, pesantemente chiamati in causa, lo citino in giudizio, e così ha luogo un ulteriore processo che, come da miglior tradizione radicale, “processa” a sua volta gli inquisitori.
Facciamo prima un passo indietro. Il primo processo ha luogo nel 1968. Sul banco degli imputati, appunto Braibanti. Pannella si affaccia in Aula. Dirà di aver avuto l’impressione di assistere a un processo dell’Inquisizione. L’imputato sembra rassegnato, anzi: estraneo all’ambiente che lo circonda. Sul suo capo pende un’accusa scovata tra le pagine meno esplorate del codice penale, l’articolo 603, che viene dopo quello dedicato al commercio degli schiavi. Un articolo che transitato dal codice Rocco, fascista, a quello repubblicano, e che colpisce duramente il reato di plagio. Non ci sono precedenti, tranne il processo, mesi prima contro l’attore Maurizio Arena per la sua storia d’amore con Maria Beatrice di Savoia, (concluso con un’assoluzione). Braibanti, è il primo imputato (per fortuna anche l’ultimo) ad essere condannato in un tribunale della Repubblica italiana per il reato di plagio. Neanche il fascismo l’ha utilizzato troppo. Negli anni ‘30 gli unici condannati per gli articoli 602 e 603 del codice penale erano stati i “mercanti” che imbarcavano gli schiavi a Massaua e li sbarcavano sulla costa araba.
Chi è Braibanti? Un intellettuale “disorganico”, di tendenza anarchica e dagli interessi più disparati, dalla poesia alla saggistica, dalla pittura al teatro, dalla lavorazione delle ceramiche allo studio della vita e dell’organizzazione sociale delle formiche. Soprattutto, è un omosessuale. È proprio questa propensione sessuale che gran parte della società di allora, pienamente rappresentata dal tribunale romano, gli rimprovera. Il “piccolo e stortignaccolo Braibanti”, come lo definisce la parte civile, è condannato a nove anni di reclusione. Naturalmente, l’omosessualità non poteva essere contestata come reato. Braibanti è accusato di avere plagiato uno dei due giovani con cui vive e con cui ha un rapporto omosessuale. Sono i familiari di questo giovane a dar vita al processo. Sequestrano il ragazzo con la forza, lo rinchiudono in manicomio e denunciano il presunto plagiatore. Malgrado i quaranta elettroshock ai quali è sottoposto, il presunto plagiato dichiara sempre, tutte le volte che viene interrogato durante il processo, di avere scelto liberamente il suo rapporto con Braibanti. Non è creduto. Il vero artefice del processo, soprattutto nella sua fase istruttoria, è il pubblico ministero Antonino Loiacono. Per tre anni e mezzo raccoglie pazientemente fatti e testimonianze, inseguendo una sua ricostruzione della personalità di Braibanti, da calzare poi sul reato di plagio. Mantiene sempre l’istruttoria sommaria, senza mai formalizzarla per tutto quel periodo.
La sua arringa è memorabile, un atto d’accusa contro la diversità e l’omosessualità. L’imputato è preda di “pervertimento demoniaco…I negri, sono una razza che te la raccomando…Chiedo una pena esemplare, affinché nessun professoruncolo possa venire a togliere domani la libertà a un innocente”. Ma a questo punto la mobilitazione degli intellettuali e dei giornali più progressisti diventa imponente. Pannella apre la strada, facendo fuoco e fiamme su “Notizie radicali”. Un altro giornalista, anche lui purtroppo scomparso, Giuseppe Loteta, ne scrive su “l’Astrolabio”.
Si spera nel presidente della Corte d’assise giudicante, Orlando Falco, che si sa essere più moderato di Loiacono. Non in questo caso. Braibanti è condannato a ben nove anni di reclusione. Quando, dopo cinque mesi, si leggono le motivazioni della sentenza, c’è da trasecolare. In 340 roboanti cartelle si scomodano Freud, Bernheim, Musatti, Janet, Morgue, Marcuse, Vasilev, Cesare, don Giovanni, Napoleone, Socrate, Alcibiade, perfino il diavolo, nel tentativo di dimostrare che Braibanti ha sottoposto al proprio potere i due giovani discepoli. Per Falco, Braibanti è “un diabolico, raffinato seduttore di spiriti, affetto da omosessualità intellettuale”.
In Corte d’Appello non cambia molto. La pena è ridotta a quattro anni per “meriti resistenziali”: il “diabolico professore”, infatti è stato arrestato e torturato dai seviziatori della famosa “banda Carità”. Ma l’impianto accusatorio è pienamente confermato. Tra il primo e il secondo grado del processo, Pannella e Loteta sono denunciati dal Loiacono per diffamazione a mezzo stampa e calunnia. Falco no, non querela. Proprio in quei giorni è incaricato di dirigere la Corte che giudicherà Pietro Valpreda, un altro anarchico, per la strage di piazza Fontana. Evidentemente pensa che stare zitto sia la cosa migliore. Il processo contro Pannella, Loteta (e il direttore responsabile di “Astrolabio”, Mario Signorino), si svolge all’Aquila nel 1972. È come riaprire il caso Braibanti. Riemerge così tutta la vicenda del “diabolico professore”.
Parri, malgrado i suoi 82 anni viene a testimoniare: “Sono venuto qui per assumermi la mia responsabilità morale di direttore de “l’Astrolabio” e rivendicare la mia piena solidarietà col giudizio che Loteta e Pannella hanno dato sul processo Braibanti. E quindi la mia piena punibilità a pari titolo”. Naturalmente, non è incriminato. A Loteta e Pannella invece, caduto il reato di calunnia che non c’entrava proprio per niente, danno nove mesi di reclusione, confermati in appello e poi annullati in Cassazione. Il lieto fine (se così si può dire), arriva l’8 giugno del 1981: la Corte Costituzionale cancella il reato di plagio. Nel codice Rocco, e poi in quello della Repubblica italiana, erano previsti da 5 a 15 anni di reclusione per chiunque sottoponga “una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. La Consulta rileva “l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire ad essa in contenuto oggettivo, coerente e razionale”. Giustamente, concludono, “essa è stata paragonata ad una mina vagante nel nostro ordinamento”. Una mina che non esploderà più. Per ora, almeno.
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