Al Portogallo non si comanda, come al cuore. Perché quando comincia a battere è innamoramento puro. Per tanti i motivi: dalla posizione geografica, la più occidentale fra tutti gli Stati dell’Europa continentale, che garantisce un clima secco e ventilato, alla bellezza delle sue città (la capitale Lisbona, la dinamica Porto), alla musica (il fado cantato dalla celeberrima Amália Rodrigues fa venire i brividi lungo la schiena), alle spettacolari azulejos, le piastrelle di ceramica smaltate e decorate (quelle che in Italia, se chiedi il bonus 110, te le fanno togliere), fino alla tavola con i suoi prodotti tipici. Primi tra tutti il bacalhau e le squisite Pastéis de Belém da accompagnare a un Porto del Douro (la prima regione DOC del mondo), al Madera o al Vinho Verde che si produce nel nord. E fin qui è storia da guida turistica. Ma il Portogallo è anche qualcos’altro, qualcosa che ha sempre a che fare con il vino, anche se non esclusivamente. Qui si produce la quantità e la qualità migliori al mondo di sughero.
La regione più vocata è l’Alentejo, situata nella parte meridionale poco al di sopra della più nota Algarve. Da lì provengono oltre 180mila tonnellate del prezioso materiale, più della metà dell’intero quantitativo raccolto in tutto il continente. E questo è reso possibile grazie agli alberi distribuiti in oltre 700mila ettari di un territorio, dedicato quasi esclusivamente a tale produzione; sul resto ci sono vigneti. Ma se la zona di coltivazione è a sud, la lavorazione è concentrata al nord, a Porto. E noi qui siamo andati.
Da sommelier, giornalista di food & bev, e produttrice agricola l’idea di approfondire la conoscenza sul mondo del vino era tanta. Poi ho scoperto che il sughero non serve solo per i tappi: cioè, lo sapevo ma, in automatico, dici sughero e pensi alla bottiglia di vino, a quante ne hai aperte nella vita e a quanti tappi hai cestinato, pardon, riciclato (nell’umido, mi raccomando) o conservato per un motivo o per un altro. Ho capito cosa sono davvero, pezzi unici frutto dell’ingegno e della manualità umana.
Nel mondo vengono prodotti circa 12 miliardi di tappi l’anno, da quelli compositi, realizzati con la granella di sughero pressata, ai tappi interi, intagliati dalla corteccia ancora oggi senza l’ausilio di una procedura automatizzata. C’è tanta manualità nella produzione di sughero, certosina, millimetrica. Entrare in una fabbrica è come entrare sul set di un film di Federico Fellini, tra i vapori delle macchine bollitrici, le cataste di cortecce appena tagliate (che profumo…), e soprattutto i volti concentrati degli operai, attori di un una sceneggiatura che parla di uomini e donne, i primi a comandare i macchinari e a sagomare i pezzi di corteccia con il macete, le seconde a selezionare annusando, come fossero un “naso” di essenze, i tappi buoni da quelli difettati, o a scartarli con un rapido sguardo mentre scorrono su un tapis roulant. Un lavoro automatico, vero, ma che richiede grande abilità manuale e professionale.
E poi ho scoperto anche un’altra cosa, che è vero che per fare l’albero ci vuole il seme… ma per fare un tappo ci vuole un quarto di secolo. La quercia da sughero deve crescere tanto prima di produrre la prima corteccia utile, anche se poi la sua vita si può spingere anche fino a 400 anni. Un’attività che ha reso il Portogallo il primo produttore al mondo di sughero, le cui esportazioni nell’ultimo anno hanno raggiunto i 307 milioni di euro, secondo i dati diffusi da APCOR, (Associação Portuguesa da Cortiça) che rappresenta, promuove, diffonde e ricerca l’industria portoghese del sughero. Nella sede principale, a 30 chilometri dalla città di Porto, sono esposti solo un millesimo dei prodotti che si possono realizzare con questo materiale: da capi e accessori di moda, a comode sedute fino a lavandini e vasche da bagno. Ecco, d’ora in poi quando stapperò una bottiglia il pensiero andrà al Portogallo e alla sua melodica lingua, alle azulejos che tappezzano Porto, al baccalà che non fa venire l’arsura in piena notte, al vino Porto che soddisfa il palato a qualsiasi ora, alla manualità degli operai delle fabbriche e, ovviamente, a tutte le altre bottiglie che aprirò. Perché “nulla si sa, tutto si immagina”, parola del Maestro Fellini.