«Non è che ho paura di morire: è che non voglio». No, non è una delle molte cose sagge che ha detto Gianluca Vialli: è un verso d’una canzone di Robbie Williams, mi è tornato in mente ieri e ho scoperto solo dopo che l’avevo già citato l’anno scorso, parlando d’un’apparizione televisiva di Vialli; m’è tornato in mente ieri mentre tutti, delle due vite di Gianluca Vialli, citavano soprattutto la seconda.
Non quella in cui gli era concesso parlare d’altro, ma quella in cui ci aspettavamo ci rasserenasse sulla sua certa morte, da malato d’una malattia che non dà scampo e tuttavia capace di conservare una dignità, una compostezza, persino una mesta allegria di cui noi mediocri mica sapremmo far sfoggio sapendo che stiamo per morire.
Se permettete, però, comincerei da quando Robbie Williams non aveva ancora scritto quel verso, e Gianluca Vialli era solo uno che giocava a calcio: più figo degli altri, ma un calciatore. Comincerei dalla vita e dalla volgarità, ché per la morte e lo stile abbiamo fin troppo tempo. Comincerei dalla sera in cui, non avendo mai visto una partita di calcio, prendo nota dell’esistenza di Gianluca Vialli.
È la prima metà degli anni Novanta, immaginatevi una tavolata affollata di quelle in cui non si sa mai chi pagherà il conto alla fine. C’è stata una qualche partita, insomma viene fuori il nome di questo Vialli, che non mi direbbe niente. Senonché. Senonché al tavolo c’è una donna bellissima.
Ha più o meno l’età di Vialli: è una donna, io sono una ragazzina. Una cosa strana che succede nel corso della vita è che, quando io avevo 22 anni e Vialli ne aveva 30, eravamo di due generazioni diverse; adesso, che Vialli è morto a 58 e io ne ho 50, è morto un mio coetaneo.
Quindi c’è questa trentenne bellissima alla quale la me ventiduenne guarda con desiderio mimetico, e la trentenne, alla conversazione degli uomini su Vialli, partecipa muta. Facendo, al momento giusto, solo dei gesti che quella conversazione inevitabilmente la dirottano. Dei gesti che intendono riferirsi all’apprezzabile misura di carne presente nelle mutande del calciatore con cui ella ha avuto commerci carnali dei quali è determinata a metterci al corrente.
La me ventiduenne avrebbe trovato volgarissima e irricevibile l’idea di ricordare un morto raccontando di quella volta in cui una tizia vantava le misure del defunto. La me cinquantenne lo trova l’unico modo accettabile di truffare la morte.
La me di oggi trova che la cosa più volgare successa la mattina della morte di Gianluca Vialli sia la scelta iconografica. Era moltissimo tempo che si sapeva che Vialli stava morendo, e i giornali avevano avuto modo di prepararsi. E i loro preparativi hanno prodotto una scelta quasi univoca: Vialli che piange, abbracciato a Mancini, alla fine d’una partita della nazionale di cui Mancini è allenatore. Quale dev’essere la suggestione? Vialli già vecchio e malato che piange sé stesso? Certe volte mi viene voglia di mandare nelle redazioni il Gabibbo a dire «ma non vi vergognate?».
Avevano avuto tutti modo di prepararsi, i politici che hanno tutti sciorinato il loro penzierino, le soubrette consapevoli o meno delle doti nascoste che avevano tutte la loro brava foto col morto, e tutti i portatori di morte riflessa: nel secolo dell’appropriazione di cadavere, non poteva certo scampare al rituale uno che non devi neanche far finta d’aver trovato amabile. Vialli piaceva a tutti, tutti ne parlavano bene da vivo, che come si sa è un po’ più raro dell’elogio utile a farci brillare di morte riflessa.
Avevano avuto modo di prepararsi perché esistono cose di cui dovremmo indignarci invece delle stronzate su cui ci concentriamo. Ci concentriamo sul linguaggio, guai a chi dice «ha combattuto contro il cancro» (Vialli, saggiamente, ne parlava come d’un passeggero indesiderato che non si decideva a scendere; ma non tutti sono saggi, non tutti sono abili burattinai di parole); e guai a chi usa perifrasi. Ma «male incurabile», che tanto ci scandalizza, a volte è molto preciso: al cancro al pancreas ancora non si sopravvive, nel secolo che manda gente su Marte, e mi sembra più scandaloso questo fatto che il lessico che adoperiamo per dirlo.
Avevamo tutti avuto modo di prepararci perché Vialli aveva raccontato cos’aveva, scegliendo per sé la parte pubblica della questione. Se sei una persona nota, in questo secolo qui, mostri la tua malattia al mondo o la taci a tutti tranne pochi intimi. Tra Nora Ephron che non dice neanche agli amici di avere il cancro, e il marito della Ferragni che s’instragramma dall’ospedale, non paiono esserci vie di mezzo. Vialli era riuscito a mantenere un pudore nell’essere pubblicamente malato, e vorrei che qualcuno gli avesse chiesto se gli pesasse il fatto di essere diventato la sua malattia: se lo dici, poi non puoi più parlare d’altro.
Dieci mesi fa, Gianluca Vialli era morto in televisione. Alessandro Cattelan aveva fatto una serie d’interviste per Netflix, ogni intervista una puntata, con un legame narrativo tra la fine d’una puntata e l’inizio della successiva; prima di quella con Vialli, ce n’era una che finiva in paradiso. Se Vialli a quel punto non avesse già incarnato la propria malattia, il tutto avrebbe evocato Il paradiso può attendere. Invece, mi ricordo che avevo pensato: solo a uno come Vialli puoi dire ehi, ti dispiace se ti geolocalizzo morto come d’altra parte quasi sei, e lui trovarla una cosa spiritosa cui collaborare volentieri.
In quell’intervista lì, a un certo punto Vialli diceva «Mi sono anche reso conto che non val più la pena perdere tempo a far delle stronzate: non c’è tempo». E a questo punto bisognerebbe concludere che è una lezione che dovremmo imparare: smetterla di perder tempo dietro alle stronzate, agli imbecilli, al declino dell’occidente, ai coccodrilli egotici.
Ma forse è il contrario. Forse il lusso d’ignorare che potrei morire domani, o tra un anno, è proprio questo qui: trattare il tempo come se fosse illimitato, perderlo, buttarlo in stronzate. Essere meno stupendi di com’era Vialli, però vivi. Rischiare che, quando morirai, nessuno dirà quant’eri saggio o vorrà postare una foto con te, purché in cambio quel giorno venga tardissimo.