Quante ore passa un cuoco in cucina? Tante, infinite, troppe. Le stime sono quelle che conosciamo e che spaventano. Soprattutto quando si tratta di scegliere la professione. In media, infatti, sono circa 84 le ore che chef, cuochi e brigata trascorrono in una settimana davanti a fuochi, taglieri e pass. Cifra che equivale a 14 ore al giorno. Tante, infinite, troppe, se consideriamo che il contratto nazionale ne prevede 40 con un massimo di 250 di straordinario distribuite sull’anno.
E allora che succede? Succede che ritorna la polemica, le dichiarazioni bomba degli chef sui giornali e l’astio di chi questo lavoro, quello della cucina, non lo vuole fare più. E succede che, con la stagione turistica alle porte, ripartano anche gli allarmi sul non trovare personale. Secondo uno degli ultimi appelli lanciati dalla Federazione Italiana Pubblici Esercizi, infatti, «Almeno per il 30% delle figure richieste le imprese hanno difficoltà di reperimento per ridotto numero di candidati, mentre per il 13,8% il motivo principale è l’inadeguatezza dei curricula presentati».
Ci risiamo, quindi. Rispetto allo scorso anno, nulla è cambiato. E le motivazioni sembrano essere sempre le stesse. «La diminuzione di personale nel turismo e nella ristorazione è dovuta alle pessime condizioni di lavoro, con un tasso altissimo di irregolarità, mancata o parziale applicazione dei contratti e con turni di lavoro non gestibili con la vita privata e salari bassi» si legge in un comunicato della Filcams Cgil.
Eppure, lo stato dell’arte della ristorazione, conti alla mano, sembra essere florido: nonostante gli aumenti di costi energetici e di materia prima, l’ultimo quadrimestre del 2022 ha segnato un bilancio positivo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un saldo superiore di 64 punti percentuali. Ma allora, qual è la verità?
«Il mondo della ristorazione sta cambiando, ma sta cambiando lentamente» ci dice Fabio Zago, chef, docente e consulente gastronomico. «C’è una ristorazione con milioni di pasti dove tutto funziona correttamente, che è quello della ristorazione collettiva, poi ci siamo noi, che siamo una piccolissima parte, dove ancora le cose non vanno sempre come dovrebbero».
Partendo, infatti, dalle scuole, dagli istituti alberghieri che dovrebbero formare gli chef di domani (a cinque anni dall’uscita dalla scuola è il 15% che lavora nella ristorazione), la situazione si mostra per quello che è. L’effetto Masterchef, con le star dei fornelli alla tv e la scia di riflessioni lasciate dalla pandemia, ha portato ad abbandonare le idee di passione e gloria, che per tanti anni hanno caratterizzato il mondo della cucina.
Gli stipendi, infatti, sono quelli di qualsiasi altro impiegato (si parte da una base di 1.200 euro al mese) con turni di lavoro, che in qualche modo cozzano con la vita privata. Mentre gli altri si divertono, tu stai in cucina. Ogni lavoro, in fondo, ha i suoi lati oscuri, la ristorazione ha questo e, quando si sceglie questo lavoro, ne devi prendere coscienza. Si tratta, infatti, di un lavoro che spesso coincide con la parola “missione”. Un po’ come capita in altre professioni: quella del medico, quella del giornalista, tanto per citarne alcune.
Ma su questo gli chef, quelli che ce l’hanno fatta, sono molto chiari: ci vuole passione.
«Il valore delle cose è determinato dalla fatica che si impiega nel fare le cose, solo così puoi capirlo. Lavorare in cucina non è semplice e non è per tutti, devi essere appassionato. Non si fa per i soldi, altrimenti è meglio trovare un’altra occupazione». Ecco il pensiero di William Pitzalis, chef del Cagliari Calcio e fondatore della scuola di cucina L’Accademia del Buon Gusto:
Passione e regolamentazione. Nell’alta cucina, nelle strutture più organizzate, si cerca il cambiamento. Ce lo spiega anche Claudio Sadler, chef e imprenditore: «Fino a un po’ di tempo fa la situazione era con turni difficili da gestire. Oggi, soprattutto dopo il lockdown, sono cambiate le cose. I ragazzi fanno meno ore, sono più tutelati. Nel mio caso, facciamo il possibile per fare degli orari più comodi. Otto ore al giorno e due giorni di riposo. La cucina è un luogo che ti porta via tantissimo tempo e rispettare perfettamente tutto è complicato, ma cerchiamo di farlo nel rispetto dei diritti e dei dipendenti. Questo è quello che mi sono imposto di fare con le mie società. È una questione di coscienza e sensibilità».
«Io e i ragazzi stiamo in cucina in media dalle 8 alle 10 ore al giorno» – spiega anche Antonia Klugmann, chef e titolare de L’Argine a Vencò. «Dalla riapertura post pandemia, abbiamo deciso di chiudere due giorni a settimana. Questa novità ha decisamente migliorato la vita di tutti noi. Per fortuna in tutti i settori, non solo nella ristorazione, sta crescendo una nuova sensibilità rispetto alle condizioni lavorative. Le nuove generazioni sono più consapevoli e meno disposte ad accettare delle condizioni di lavoro che non consentono di bilanciare vita lavorativa e personale».
Un equilibrio di valori, insomma, che va spiegato e narrato anche ai clienti. «Qualche volta mia sorella ed io, da ristoratrici, troviamo nel pubblico un’inconsapevolezza di quali siano i ritmi di lavoro reali di un ristorante», continua la chef. «Iniziare e terminare i servizi a una certa ora. I giorni di chiusura organizzati per tempo e una programmazione del lavoro grazie a un sistema di gestione delle prenotazioni razionale comportano un miglioramento significativo della vita dei lavoratori all’interno dei ristoranti. Raccontare ai nostri ospiti quelli che sono i meccanismi di vita del ristorante ci ha permesso di renderli più sensibili rispetto a questi aspetti».
C’è voglia di cambiare le cose, di adeguarsi ai bisogni delle persone e normalizzare un lavoro che, comunque, è, e dev’essere, come tanti altri. E se nell’alta ristorazione questo cambiamento è sicuramente in atto, mosso da una presa di coscienza, il settore rischia comunque di continuare a navigare in acque non tranquillissime. La mancanza di personale, quindi, fa da cartina tornasole di tutta una serie di problematiche che vanno affrontate.
Innanzitutto va considerato che anche in cucina, come in tutto il mercato del lavoro, mancano sempre più giovani: la fuga dei cervelli coincide anche con quella della manodopera. All’estero, si viene pagati di più e si lavora meglio. Quindi, per cercare di attingere forza lavoro dalle nuove generazioni serve obbligatoriamente un cambio di rotta. Una normativa diversa, più controlli e condizioni di lavoro più attrattive.
Perché, d’altronde, oggi l’economia è quello che è e la crisi si rifà inevitabilmente su clienti e lavoratori. I costi di gestione di un’attività sono sempre più alti, la sostenibilità è un valore che spesso si fa fatica a raggiungere e la legalità non sempre si sposa con la realtà attuale (basta ragionare sull’evasione fiscale e anche sui tentacoli della malavita organizzata, che a volte trasformano i ristoranti in una lavatrice per soldi).
Voltarsi dall’altra parte, sperando che le cose vadano meglio è inutile e aggiunge dispendio a un settore che è già zeppo di sprechi, ma che, ciò nonostante, continua a crescere. Sono sempre di più infatti le imprese ristorative che nascono giorno dopo giorno. Investimenti nuovi e locali pronti a brillare, per poi accorgersi di non riuscire ad arrivare a fine mese. Forse, troppo spesso, gli imprenditori sono spinti dal luccichio che promette il settore. O forse, ancora più spesso, gli chef aprono ristoranti senza essere imprenditori. Un cane che si morde la coda, per farla breve. E ci rendiamo conto che, anche a raccontarlo, questo mondo, ci si trova di fronte a tanti forse e a tanti dubbi. Ma probabilmente è da qui che bisogna ripartire. Dalle possibilità che tali punti di domanda debbano trasformarsi in eventi fattuali e dati tangibili.