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Leggere Byung-Chul Han: l’inferno e il paradiso del nostro presente – Il Riformista

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L’impossibilità della rivoluzione e il nuovo Eden

Filippo La Porta — 17 Febbraio 2023

Leggere Byung-Chul Han: l’inferno e il paradiso del nostro presente

La politica ha bisogno della cultura. Ne ha bisogno per sapere dove collocarsi, che direzione prendere, a quale immagine del mondo contemporaneo affidarsi. Non è solo tecnica di gestione del potere. Oggi una persona di sinistra dovrebbe rinominare le ragioni per rifiutare il mondo com’è. Non può più contare sul “cammino della Storia”.

Prendiamo un autore con cui secondo me ogni lettore, ma specialmente una persona di sinistra, ha oggi il dovere di confrontarsi: Byung-Chul Han, pensatore sudcoreano nato nel 1959 e residente da molto tempo a Berlino dove è diventato una star filosofica. In particolare ci sono due suoi libri che andrebbero letti contestualmente (entrambi editi e tradotti magnificamente da Nottetempo, che ne pubblica l’intera opera): Perché oggi non è possibile una rivoluzione e Elogio della terra. Un dittico quasi dantesco. Il primo è una catabasi, la discesa agli inferi del capitalismo digitale, dei Google Glass e dei Big Data. Il secondo è l’ascesa al paradiso, diario di giardinaggio e dichiarazione di amore per la natura.

Prima gli inferi. La rivoluzione non è possibile perché il potere – sempre più invisibile – non vieta più nulla, fa leva sulla creazione e soddisfazione di desideri, e soprattutto riduce ciascuno di noi a operaio che si sfrutta da solo, a un dipendente di se stesso! Il mondo è diventato un emporio dove si sfrutta mercantilmente ogni cosa (il car sharing ha mercantilizzato l’ospitalità disinteressata). Non è più possibile una affabilità senza secondi fini. Attraverso i Big Data tutti noi diamo spontaneamente alle grandi aziende -i cui algoritmi non si differenziano da quelli dei servizi segreti – informazioni su professione, preferenze, hobby, situazione economica, etc.

Tutto ciò cancella il libero arbitrio: nella smart city riceveremo in ogni momento informazioni utili senza averle neppure richieste, mentre gli occhiali smart prenderanno decisioni al posto nostro. Il frigo conosce le nostre abitudini alimentari meglio di noi, lo spazzolino elettrico connesso alla Rete sa più di noi della nostra igiene orale: sorveglianza e trasparenza coincidono. Al posto dello stato totalitario orwelliano nel dominio neoliberista c’è una illusione di libertà sconfinata: tutti a postare e a twittare, consumando e comunicando! L’aggressività specificamente umana nasce dalla nostra consapevolezza della morte (che pure rimuoviamo: viene cancellata dalla coazione a produrre in quanto assoluto dispendio): più esercitiamo la violenza più ci sentiamo potenti e immortali. Siamo ossessionati dalla richiesta di trasparenza perché non ci fidiamo più. Lo stesso imperativo dell’autenticità ci costringe a una continua performance: l’io si assoggetta alla “coazione a prodursi senza sosta quale imprenditore di se stesso”.

Deve competere, superarsi, avere successo, sempre sentendosi un po’ inadeguato. La moda delle foto saltellando (“people jumping”) rivela il narcisismo di chi vuole mettersi in mostra. Mentre l’autolesionismo diffuso tra i giovani (almeno in Germania) ci suggerisce che i tagli sono “un disperato tentativo di percepirsi, di ricreare un senso di sé”: si prova qualcosa solo tagliandosi la carne. Altro che la sharing economy celebrata da Rifkin (se non hai soldi ne resti escluso) o la moltitudine interconnessa di Toni Negri che dovrebbe far crollare l’Impero, e invece ne è plasmata (aggiungo: somiglia più alla folla solitaria che a un nuovo soggetto politico). Fin qui l’inferno, dove tutti abitiamo. Ma, come ho detto, un giorno Byung-Chul Han sente il bisogno di essere vicino alla terra e così decide di lavorare quotidianamente in giardino per tre anni. È il suo Eden.

Nel giardino, dove il tempo si dilata, impara cosa significhi prendersi cura degli altri (il tempo del giardino è il tempo dell’altro, del quale lui non può disporre). Così l’attesa o pazienza, che Kant abbassava a “virtù femminili”, è ciò che ci serve davanti alla lenta crescita di quello che affidiamo alla terra. Ascoltando Schubert il filosofo coreano piange senza motivo: quella musica disarma l’io in quanto soggetto dell’azione, mentre l’io sacrifica la propria superiorità e “piangendo ritorna alla terra”. La digitalizzazione del mondo lo spoetizza, fa sparire la terra, trasforma ogni cosa nel noto e nel banale. Perché? Qui incontriamo una intuizione straordinaria. Perché la cultura digitale, fondandosi sul dito intento a contare, rende tutto appunto contabile, per convertirlo nel linguaggio della prestazione. Al contrario, la cultura non conta, ma racconta (tweet e informazioni non compongono un racconto).

Avviene poi una rinascita sensoriale. Anche se fosse cieco e sordo, osserva Han, si accorgerebbe subito se ha nevicato : “il profumo della neve è così poco appariscente, discreto, come quello del tempo…””Del resto la stessa primavera è “timida, discreta”, mentre la parola “crescita” ha qualcosa di proliferante. Il libro somiglia più a un poema in prosa che a un saggio filosofico: ha pagine molto ispirate che si fermano un attimo prima di diventare stucchevoli. Ora, se dico che una improvvisa fioritura mi ha reso felice, rischio evidentemente uno svenevole Kitsch dell’idillio.

Ma Han si salva proprio con la scrittura: vibrante e di asciutta argomentazione, lirica e speculativa. Solo due obiezioni: la prima è che, per evitare qualsiasi integralismo ecologico, avrebbe dovuto leggere e commentare la pagina di Leopardi sul giardino-ospedale, dove un giardino fiorente visto da vicino si rivela un feroce campo di battaglia. La seconda riguarda il suo amore per “La pioggia nel pineto” di D’Annunzio, nella quale secondo me troviamo tantissime cose – rime interne, assonanze e consonanze, onomatopee, modulazioni foniche, simmetrie sintattiche… -, tutto tranne la poesia. Fate leggere a Han, che sa il tedesco, le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, dove D’Annunzio è definito “buffone d’artista” , un “pallone gonfiato avido d’ebbrezza” (aggiungo: un superuomo senza qualità).

Torniamo ad Han e al suo distico saggistico. Per scoprire che la terra è una “creazione divina” c’è voluta la discesa gli inferi del neoliberismo e una concreta, abbagliante esperienza personale come quella del giardino. La fede religiosa diventa qui una certezza, un’evidenza. Quando si inginocchia e bacia ogni singolo fiore può farci sorridere. Ma pensiamoci: noi che idolatriamo il denaro e il potere, che abbiamo seppellito il Bello e il Buono, abbiamo davvero qualche ragione di sorridere? Personalmente sono grato ad Han perché ha trovato un linguaggio non retorico per riuscire a raccontare la primavera, mentre siamo circondati da tetri specialisti in distopie ed esteti della catastrofe.

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