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L’atomo di Colombo | La Polonia investe sul nucleare (con gli Usa), ma la transizione ecologica dal basso è già cominciata – Linkiesta.it

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La Polonia andava a carbone. È intriso nella storia e nell’identità nazionale. Il Paese era alimentato a combustibili fossili, segnatamente quelli russi. Per sganciarsi dai ricatti energetici da Mosca, il governo investe nella sua prima centrale nucleare in una joint venture con gli Stati Uniti, che lo ricompensano per la linea atlantista. La transizione, però, è già iniziata. Passa da pannelli solari e geotermia, la guidano comuni cittadini che stanno svecchiando le loro case, per prepararsi all’inverno. Insieme ai rincari delle bollette, è stata determinante la volontà di indipendenza dalla Russia.

L’accordo con Washington

Varsavia, lo ha confermato il primo ministro Mateusz Morawiecki, ha scelto una ditta a stelle e strisce (la Westinghouse Electric) per allestire il suo primo impianto atomico. Erano in lizza anche aziende sud-coreane e francesi. La vicepresidente Kamala Harris ha benedetto «un progetto vantaggioso per tutti» e utile ad «approfondire la relazione strategica tra Polonia e Stati Uniti». Attraverso canali ufficiali, l’amministrazione ha già invitato gli alleati a raddoppiare il numero dei reattori, oltre ai tre AP1000 già comprati.

La Polonia finanzia l’operazione al quarantanove per cento. I tre reattori saranno operativi entro il 2033 e produrranno tremilaseicento megawatt di elettricità: circa il quindici percento del consumo totale di corrente. L’attivazione farà risparmiare ventisei milioni di tonnellate di emissioni di gas serra. Sarà una delle più grandi centrali d’Europa e l’indotto della sua costruzione, stima la controparte americana, varrà ventimila posti di lavoro.

Una transizione ecologica dal basso

L’inverno è alle porte. I polacchi si sono mossi in anticipo. Anche perché il dividendo atomico inizierà a ripagare l’investimento tra un decennio. Darà un apporto decisivo, ma declinato al futuro, appunto. Nel breve termine, servono soluzioni pragmatiche. Se l’esecutivo ha tempi di reazione brontosaurici e, soprattutto, un certo attaccamento generazionale e politico al carbone, i cittadini hanno animato una specie di transizione ecologica dal basso.

Prima della guerra, Varsavia riceveva dalla Russia circa metà del suo fabbisogno di gas. Le forniture sono state interrotte ad aprile. Era di provenienza russa anche il quaranta per cento del carbone bruciato per usi domestici, su tutti il riscaldamento di un terzo delle case, perché la produzione interna finiva quasi interamente ad alimentare le centrali elettriche. Carbone e metano sono, rispettivamente, la prima e la seconda fonte di un mix energetico incompatibile con gli obiettivi del “Fit for 55” europeo.

Il disaccoppiamento dalla Russia

Nei mesi seguiti all’invasione, il prezzo del gas è decuplicato e quello del carbone è triplicato. Qualcuno è corso ad acquistarlo oltreconfine, in Repubblica Ceca. Il governo ha imbastito importazioni da Paesi lontani, come Colombia e Sud Africa. Oltre all’esigenza di risparmiare, ci sono ragioni ideali: «derussificare» le bollette significa smettere di finanziare l’esercito di Vladimir Putin. Il Washington Post ha raccontato di feste per celebrare il disaccoppiamento da Gazprom.

Così quella che era ritenuta una versione europea della West Virginia, cioè un’enclave di ricette energetiche ottocentesche in un continente entrato in un altro millennio, ha registrato il record europeo di istallazioni di pompe di calore, con vendite raddoppiate rispetto a dieci anni fa. Il tempo di attesa è di sei mesi, per via della domanda in forte aumento. L’obiettivo fissato dal governo per il fotovoltaico al 2030 è stato raggiunto e già sorpassato. La protagonista del balzo in avanti è stata la società civile.

Conflitto di interessi

Prima del 24 febbraio, parlare di transizione energetica in Polonia voleva dire passare dai bollitori a carbone a quelli a gas. In parte l’esecutivo ha assecondato la svolta, raddoppiando fino a sedicimila euro i bonus per riconvertire l’alimentazione domestica perché inquini meno. La politica, però, ha ancora un’idea datata. Se ha stanziato quattrocento milioni per progetti locali di efficienza, ha pure comprato 4,5 milioni di tonnellate di carbone in previsione della stagione fredda e previsto un sussidio di seicento euro per chi vive in case arretrate dal punto di vista energetico.

Da ottobre a Budno arriva il metano norvegese, attraverso il gasdotto Baltic Pipe, in cantiere dal 2018. Aiuterà a resistere durante l’inverno. Il Paese ha una delle peggiori qualità dell’aria in Europa. Chi brucia carbone per scaldarsi, poi, è tre volte più a rischio di ammalarsi di patologie ai polmoni. Con la lobby che lo estrae la politica ha una relazione storica, ma tossica. Entro il 2049 verranno chiuse tutte le miniere, ma l’anno prossimo ci sono le elezioni e, si sa, sotto le urne è più facile scendere a compromessi.

La panacea americana

La Polonia dispone pure di terminal per il gas naturale liquefatto (Gnl). È la linfa dello sforzo degli Stati Uniti per aiutare l’Unione europea a liberarsi dal metano russo, da cui prima della guerra dipendeva per il quaranta per cento. Joe Biden aveva promesso quindici miliardi di metri cubi nel 2022, ma Washington ha fatto molto di più: finora ha spedito via nave ben quarantotto miliardi di metri cubi. L’obiettivo è restare a quota cinquanta nel biennio 2023/24. Ma l’America, da sola, non basta. L’Europa deve salvare se stessa.

Da un lato, mancano ancora infrastrutture per ricevere i carichi delle metaniere e poi immettere il gas nelle reti nazionali (sì il rigassificatore di Piombino servirebbe anche a questo). Dall’altro, gli Usa sono molto vicini alla loro capacità massima di liquefare gas. Infatti, la strategia del “RePowerEu” di Bruxelles è più ampia di una semplice diversificazione degli approvvigionamenti, o di una riduzione dei consumi, e ha una componente green, comune all’amministrazione Biden. Se abbiamo le riserve piene alle porte dell’inverno, comunque, è anche grazie all’assistenza energetica garantita dalla Casa Bianca.

Cosa va (e cosa non va)

La Polonia può essere un modello? Dipende. Sì, per esempio, sul fermo sostegno all’Ucraina. Che è stato, innanzitutto, militare. È seconda solo agli Stati Uniti nella classifica del Kiel Institute per l’invio di materiale bellico, pari a 1,8 milioni di dollari su tre milioni di aiuti totali. Più di Francia e Italia messe insieme e in linea con il dato delle Repubbliche Baltiche per la percentuale di prodotto interno lordo destinata alla difesa della democrazia ucraina. Sempre in relazione al Pil, si è impegnata ad alzare, dal due attuale, la sua spesa militare fino al tre o al quattro per cento.

A settembre, Varsavia ha inoltrato a Berlino una richiesta da 1,3 trilioni di euro di riparazioni per la Seconda guerra mondiale. Sono ferite del Novecento, bruciano ancora. Non agevolano l’unità europea in un momento in cui è quanto mai necessaria. Ci sono altri problemi, però, e non dobbiamo dimenticarli: la contrazione dello Stato diritto, il tentativo del PiS sovranista di controllare la magistratura, la vergognosa criminalizzazione delle libertà femminili e dell’aborto, che la Polonia di un altro secolo, nel 1932, era stata tra le prime a regolamentare.

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