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Infotainment e democrazia | TikTok, le fake news e gli ostacoli al diritto di voto – Linkiesta.it

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Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022 ordinabile qui.

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Sono troppo vecchio per TikTok?». Rodolfo Hernández, candidato settantasettenne alle elezioni presidenziali colombiane dello scorso giugno, ha preso un tale slancio grazie ai suoi video sui social media da arrivare a un soffio dall’ottenere la carica più importante del Paese. In questi video Hernández scherzava davanti alla telecamera sulla sua età e si metteva in posa con folle di giovani sostenitori, trasmettendo messaggi populisti contro la corruzione e ottenendo milioni di like dagli ammiratori.

Alla fine, Hernández ha perso al ballottaggio con Gustavo Petro, l’ex ribelle che è diventato il primo presidente di sinistra del Paese. Ma è comunque riuscito a ottenere il 47,35 per cento dei voti a fronte del 50,42 per cento del vincitore.

Noto come il Donald Trump della Colombia, l’ex sindaco è stato un candidato anticorruzione che era stato precedentemente incriminato per accuse di corruzione, un sostenitore dell’austerità le cui politiche avevano condotto a uno sciopero della fame i dipendenti dell’amministrazione pubblica della sua città e un magnate delle costruzioni che non aveva mai mantenuto la sua promessa di costruire ventimila abitazioni per i poveri.

La sua campagna elettorale su TikTok è uno degli esempi più impressionanti tra quelli che sono stati discussi in un panel sull’informazione, la disinformazione e il futuro del giornalismo che si è tenuto durante la decima edizione dell’Athens Democracy Forum, che è stato organizzato nel settembre scorso, nella capitale greca, dalla Democracy & Culture Foundation in associazione con il New York Times.

Stephen King, chief executive di Luminate (una fondazione filantropica che si occupa dell’empowerment dei cittadini e del diritto all’informazione), ha utilizzato proprio l’esempio colombiano per mostrare come le piattaforme dei social media si siano trasformate in canali per la propaganda politica durante la campagna elettorale e addirittura in nuove fonti di informazione. Un recente sondaggio in quattro Paesi latinoamericani, ha raccontato King, mostra come le generazioni più giovani cerchino le notizie «in luoghi profondamente diversi» da quelli frequentati dalle generazioni precedenti

«Le notizie, la politica e l’entertainment si stanno mescolando tra loro e questo è un cambiamento guidato dalle aziende che gestiscono i social network», ha detto King. «Queste aziende stanno iniziando a dettare il modo in cui le persone consumano le informazioni».

La confusione tra fatti reali, divertimento e fiction è motivo di crescente preoccupazione nelle redazioni – e non solo. Nello scorso dicembre il presidente americano Joe Biden ha annunciato che l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale avrebbe onato 30 milioni di dollari al neonato Fund for Public Interest Media (Fondo internazionale per i media di interesse pubblico), la cui missione è sostenere il giornalismo indipendente in tutto il mondo. Biden ha definito la stampa libera come il «fondamento della democrazia» e ha detto che essa e «minacciata» in tutto il mondo.

Nell’Athens Democracy Forum di quest’anno la disinformazione e la manipolazione delle notizie sono state identificate come potenziali minacce alla democrazia. Un’altra minaccia – in particolare negli Stati Uniti – è il tentativo di rendere più complicato l’esercizio del diritto di voto.

Nel corso della discussione, la sudafricana Khadija Patel, che è head of programming del nuovo Fund for Public Interest Media, ha ricordato la sua precedente esperienza come direttrice del Mail & Guardian, che è uno dei principali quotidiani del suo Paese e ha una storia di inchieste che hanno portato alla luce vicende di corruzione e altri crimini. Patel ha detto di essersi ritrovata a gestire «un licenziamento dopo l’altro», dal momento che «non c’era più un modello di business capace di sostenere un giornale».

Un altro degli intervenuti al Forum, Donald Martin (che ha lavorato all’Herald, che è uno dei principali giornali scozzesi), si è detto d’accordo sul fatto che l’ultimo decennio sia stato dominato da un ridimensionamento delle redazioni e da una nefasta crescita dei social network. E ha ricordato un’occasione in cui un articolo di prima pagina, che era basato su un solido lavoro giornalistico, è stato attaccato dalla persona che era oggetto di questo articolo. I tweet denigratori di questa persona sono stati così ampiamente retwittati da finire per danneggiare l’immagine del giornale.

«Le fake news non sono una novità. La novità è la dimensione del fenomeno», ha detto Martin. «Sono migliaia di anni che si raccontano bugie, ma non penso che le bugie siano mai state così sofisticate, così verosimili e così facili da diffondere».

Oggi, non appena compare online una falsa informazione «devi smascherarla entro trenta minuti prima che prenda slancio», ha spiegato Martin. Altrimenti si diffonde grazie agli algoritmi e «a un pubblico acritico composto da persone che sembrano felici di rimanere intrappolate nelle proprie camere dell’eco». Per preparare la via verso un futuro migliore le scuole hanno il dovere di «insegnare le trappole e i benefici dei social media» e di «ricostruire la fiducia verso la stampa libera», ha aggiunto Martin.

La giornalista ucraina Anna Romandash, che, a partire dallo scorso febbraio, mese in cui è iniziata l’invasione del suo Paese da parte della Russia, ha documentato i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani, ha detto che Mosca ha raggiunto un nuovo stadio nell’informazione sulla guerra.

Mentre in precedenza c’erano due realtà – da una parte le fake news e dall’altra le notizie verificate da parte degli organi di informazione tradizionali – ora esiste, ad esempio in Russia, anche «un sacco di propaganda promossa dallo Stato, che non punta necessariamente a creare notizie false, quanto piuttosto a gettare discredito sulla verità», ha detto Romandash.

Il risultato è che nella Russia di oggi «non c’è niente che possa essere definito come una realtà oggettiva. Ci sono versioni diverse di storie diverse», ha spiegato. E questo ha reso «molto pericolosi» i social network, perché alcune persone, e soprattutto «quelle che non hanno una solida “alfabetizzazione digitale”», potrebbero non riuscire a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è».

L’espressione “fake news”, naturalmente, non è mai stata tanto usata come durante la presidenza di Donald Trump, che ha accusato i principali mezzi di informazione mainstream di diffondere disinformazione. Di contro, i mezzi di informazione hanno documentato tutte le occasioni nelle quali il presidente ha comunicato notizie false. Ma, anche ora che Trump non è più in carica, negli Stati Uniti il giornalismo è ancora sottoposto a minaccia. Ed è sotto attacco anche il diritto di voto dei cittadini, come è risultato chiaro da un altro panel del Forum, che si è occupato sullo stato della democrazia americana.

Carol Anderson – professoressa di Studi afroamericani alla Emory University della Georgia e autrice del documentario I, Too, che è stato proiettato durante l’Athens Democracy Forum – ha dato inizio al dibattito chiedendo che si agisca urgentemente per rendere meno complicati i meccanismi di registrazione degli elettori negli Stati Uniti. «Una delle prime cose che dobbiamo riconoscere, nel contesto degli Stati Uniti, è che assistiamo all’aumento di quelle che definiamo come “leggi per la soppressione del diritto di voto”», ha spiegato Anderson. «Queste leggi hanno come obiettivo alcuni determinati segmenti della popolazione E hanno il preciso intento di far sì che i cittadini che fanno parte di questi segmenti debbano superare molti ostacoli per riuscire» a votare.

Questi stessi gruppi di cittadini sono poi criticati perché non votano quando, di fatto, affrontano, e continuano ad affrontare, «degli ostacoli che apparentemente non hanno alcuna relazione con la razza, ma che in realtà sono costruiti proprio su base razziale. Quello che dobbiamo fare è smantellare questi ostacoli al diritto di voto».

In un’intervista successiva al suo intervento, Anderson ha elencato alcuni di questi ostacoli. In Texas per poter votare si richiede un documento di identità con fotografia rilasciato dal governo: ma se un tesserino universitario non è ritenuto valido, si può invece votare con il porto d’armi.

L’Alabama richiede un documento di identità rilasciato dal governo e quindi un tesserino di residente nelle case popolari non è sufficiente. Ma il 71 per cento dei residenti nelle case popolari in Alabama è composto da afroamericani. E molti di loro non hanno altri documenti di riconoscimento provvisti di foto al di là del tesserino di residente nelle case popolari.

Lisa Witter – un’altra delle partecipanti al panel, che è cofondatrice di Apolitical, un’impresa for-profit che si occupa di aiutare i governi e gli amministratori a fornire servizi migliori e a ottenere migliori risultati – ha spiegato che anche i nativi americani incontrano ostacoli analoghi. Ad esempio, ha spiegato Witter, per votare serve avere un indirizzo postale e i nativi americani che vivono nelle riserve non ce l’hanno.

Secondo Witter, negli Stati Uniti ci sono, in totale, 560.000 cariche elettive. Se i nativi americani fossero equamente rappresentati, in base alla loro percentuale sulla popolazione complessiva dovrebbero ricoprire circa 17.000 cariche in tutto il Paese. E invece i nativi americani che ricoprono cariche elettive negli Stati Uniti sono in tutto duecento. «Tutto ciò sembra sbagliato, ma è anche un’opportunità », ha detto Witter, che ha sottolineato come attualmente ci sia negli Stati Uniti «una tendenza all’imprenditoria politica», nel cui ambito degli imprenditori con mezzi consistenti stanno difendendo in ogni modo possibile la democrazia.

Anche un’altra dei partecipanti al panel, Dawn Nakagawa (che è executive vice president del Berggruen Institute, la cui missione è aiutare a dare forma a istituzioni democratiche per il xxi secolo), è apparsa altrettanto ottimista. Nakagawa si è detta «molto preoccupata e molto pessimista», a breve termine, sullo stato della democrazia americana, ma ha spiegato che gli americani stanno «reinventando che cosa debba essere una democrazia fatta dalle e per le persone, e stanno ricostruendo istituzioni che saranno qualcosa di molto diverso da semplici organi elettivi».

«È una discussione davvero coraggiosa, che cinque anni fa proprio non esisteva», ha detto Nakagawa. «Credo che, sul lungo termine, avremo una straordinaria democrazia reinventata, e credo che tutto ciò avverrà negli Stati Uniti, visto il punto di crisi al quale siamo arrivati». E, se la democrazia sarà reinventata negli Stati Uniti, essa «si diffonderà più rapidamente ».

Anche Anderson, la docente della Emory University, ha individuato ragioni per essere speranzosi, perché, in quanto storica, osserva il presente in una prospettiva di lungo periodo. «Ogni volta che la democrazia è stata sfidata da qualcuno che voleva opprimerla, la democrazia ha poi vinto», ha detto. «La richiesta, la sete di democrazia è così reale ed è così intensa che le persone saranno disponibili a combattere per difenderla».

© 2022 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND FARAH NAYERI

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