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Il teatro in carcere: atto politico che avvicina la pena alla Costituzione – Il Riformista

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1. Tanto vale riconoscerlo subito: il teatro non è più percepito come un’esperienza necessaria. L’immediato e prolungato arresto cardiaco delle attività teatrali imposto dalla pandemia, al pari di altre ritenute inessenziali per la comunità e la persona, lo ha certificato ufficialmente. Del teatro, dunque, si può fare a meno. Tranne che in un luogo, dove conserva intatta la sua originaria e autentica funzione catartica: il carcere.

Quando il teatro entra in un istituto di pena, infatti, si assiste al capovolgimento di quella fissità che zavorra la condizione detentiva. Una fissità temporale, dovuta alla ruminazione incessante e parassitaria di un eterno presente sempre eguale. Ma anche una fissità esistenziale che inchioda il reo alla sua colpa, facendone la sineddoche della sua biografia. In questa duplice fissità il detenuto è costretto in uno stato che in psichiatria si definirebbe di para-noia: l’esatto opposto della meta-noia, che in greco antico indica la trasformazione interiore. A scanso di equivoci: l’esperienza teatrale dietro le sbarre è tutt’altro che facile, tanto per chi la propone quanto per chi accetta di viverla. Eppure, è una cruna attraverso la quale riescono a passare i più impensabili cammelli: il detenuto riottoso, quello ribelle, perfino l’irredimibile. Com’è possibile?

2. La risposta trabocca da un volume prezioso, curato dall’attore-regista Horacio Czertok, Libertà vo’ cercando (Edizioni SEB 27), da poco nelle librerie: racconta a più voci, in maniche arrotolate di camicia, il lavoro del Teatro Nucleo nel carcere di Ferrara. Pagina dopo pagina, il lettore apprende il perché di maturazioni personali altrimenti inspiegabili. Nell’interpretazione dell’altro da sé, infatti, il teatro offre al reo «la possibilità di percepirsi in modo diverso rispetto alla propria condizione e al proprio futuro». Nell’immedesimazione del personaggio, gli rivela che «è possibile cambiare ed è anche piacevole farlo».

Attraverso la rigida autodisciplina del lavoro teatrale, addestra al rispetto delle regole di comportamento. Educando all’uso della parola recitata, chiama il detenuto-attore a un’esperienza terapeutica, perché nominare le cose in maniera precisa riduce il caos interiore. In quanto impresa collettiva, abitua «alla socializzazione e all’assunzione di responsabilità». E poiché l’assegnazione delle parti in copione prescinde dalla fedina penale di ciascuno, «da quel momento si è tutti eguali» e diventa possibile ricominciare tutto dal principio. Il detenuto-attore vive così un’esperienza destabilizzante. Vacilla fino a franare. Scopre che l’autentica forza umana non è nella volontà di potenza, ma nel sapersi mettere in discussione: tornare indietro, guardarsi con occhi diversi, cambiare direzione.

3. La catarsi provocata dal teatro in carcere è possibile anche perché il carcere è un teatro. I detenuti e gli agenti penitenziari (cioè i diversamente ristretti) «svolgono una rappresentazione permanente, dove nessuno è chi dice di essere e tutti sono qualcos’altro». Lo spazio della detenzione costruisce una dimensione prettamente teatrale, fatta di deprivazioni sensoriali, situazioni immaginarie, regole imposte e spesso non scritte, in cui tutti «vivono il paradosso dell’attore, che è due persone allo stesso tempo». Chi propone il teatro in carcere lo sa, mentre per il detenuto è sempre una scoperta.

Del resto, le cose più vere della vita non si insegnano né si imparano, ma si incontrano, e i detenuti-attori sono «persone che, in un preciso momento della loro vita, incontrano il teatro e lo riconoscono, magari non razionalmente, come strumento di libertà e intima rivoluzione». Di più. È esperienza comune che, mentre qualcosa ci sta cambiando, a cambiare è anche lo spazio in cui siamo immersi, perché è sempre la relazione che fa di uno spazio anonimo un luogo vivo e vitale. Il miracolo laico può allora manifestarsi: il carcere, da luogo dove ci si può perdere per sempre, diventa il luogo dove è possibile finalmente ritrovare sé stessi.

4. Anche chi non ha mai assistito ad una rappresentazione teatrale messa in scena da una compagnia di detenuti può egualmente comprenderne l’incantesimo, attraverso un film d’antan di rara potenza: Cesare deve morire. Più che parafrasare, saccheggio piratescamente dalle sue recensioni quanto necessario per spiegare il senso delle scelte registiche di Paolo e Vittorio Taviani. La loro opera, infatti, si distingue per originalità strutturale. Non è un film (perché mostra la vita vera di persone reali). Non è un film sul carcere (perché mostra le prove per una rappresentazione teatrale). Non è un film sul teatro in carcere (perché non vediamo mai lo spettacolo realizzato, se non per le brevi sequenze che aprono e chiudono il film). Che cos’è, allora?

I fratelli Taviani entrano nel carcere romano di Rebibbia per raccontarci la possibilità di una pena che rieduca. Le storie passate dei detenuti-attori sono deliberatamente taciute: ciò che interessa ai registi è narrarci non l’accaduto, ma una possibilità di riscatto. Di ciascun personaggio si racconta – a un tempo – il sé reale, la parte in commedia, l’attore cinematografico. E poiché sono livelli che si sovrappongono continuamente fino a confondersi, lo spettatore non è portato a giudicare, semmai ad osservare il cambiamento in atto.

Assistiamo così ad una metamorfosi attraverso l’interpretazione scenica: l’uomo della pena si mostra capace di essere diverso dall’uomo del reato. È una presa di coscienza espressa nella frase del capocomico, pronunciata dopo l’applaudita rappresentazione della tragedia scespiriana, una volta richiuso il blindato alle sue spalle: «Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione». Attende, quel detenuto, una seconda opportunità. Quella che la Costituzione impone di non negare a nessuno.

5. Il teatro in carcere, dunque, non è consolazione, né balsamo, né intervallo ricreativo. È un processo creativo di natura politica, cioè una grande operazione culturale: per “teatro-carcere” «si intende infatti un’attività artistica che non solo realizza spettacoli, ma porta avanti laboratori e percorsi formativi con effetti risocializzanti sui partecipanti». Il libro ce ne restituisce tutta la complessità, mostrandoci come un caos inizialmente privo di senso si fa via via messa in scena, grazie a un lavoro che rifugge ogni pressapochismo.

Da molti anni esperienze simili si sono moltiplicate in Italia. Un dossier del Servizio Studi della Camera (n. 495, XVIII Legislatura) squaderna le dimensioni di una realtà ampiamente diffusa nell’area penale, sia degli adulti che minorile. Prima della pandemia da Covid-19 (dicembre 2019), risultano 321 le attività teatrali all’interno dei 190 istituti penitenziari. I detenuti che vi aderiscono sono complessivamente 5.021. Di questi, 4.632 uomini (pari al 7,97% dei complessivi 58.106 detenuti) e 389 donne (pari al 14,60% delle complessive 2.663 detenute). Sono cifre tutt’altro che velleitarie. Molte di queste esperienze hanno raggiunto una ragguardevole notorietà artistica. Tutte e ciascuna costituiscono avamposti concreti di civiltà. Aprono corridoi umanitari in mezzo a una realtà per lo più condannata a contenere vite di scarto.

È un lavorìo di lunga lena che sanno fare bene anche dentro la casa circondariale di Ferrara, dov’è attiva dal 2005 la cooperativa Teatro Nucleo. Due volte alla settimana si svolgono laboratori teatrali della durata complessiva di quattro ore, incrementate in prossimità degli spettacoli realizzati nel carcere e, poi, nel Teatro Comunale della città, le cui prove sono “aperte” agli studenti medi delle scuole ferraresi. Gli attori-detenuti, retribuiti per il loro impegno professionale, possono proseguire la prassi scenica anche fuori dal carcere – quando in permesso o perché dimessi – presso la sede della cooperativa, il Teatro Cortazar a Pontelagoscuro.

6. Così incarnato, il teatro-carcere si colloca perfettamente dentro l’orizzonte costituzionale secondo cui le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27, 3° comma): puniamo qualcuno per averlo poi indietro, possibilmente cambiato. Ebbene, «il teatro è un dispositivo che facilita questo cambiamento». Per dirlo con le parole di un attore-detenuto: «non vedo perché quello successo su un palcoscenico di un teatro dove sono stato accolto pubblicamente non si possa riproporre su un marciapiede che è il palco della vita di tutti i giorni».

La teologia della maledizione perenne («fine pena mai»; «deve marcire in galera»; «buttare via la chiave») è esattamente il contrario di quanto impone la Costituzione e che la legge n. 354 del 1975 traduce concretamente attraverso un trattamento individualizzato, progressivo, scandito da misure extramurarie sempre più intense, dove a fare la differenza (anche rispetto all’entità della pena effettivamente scontata) è il percorso personale del detenuto. Definendo la cella come camera di pernottamento (art. 6, 2° comma), l’ordinamento penitenziario vuole che il tempo diurno della detenzione si svolga fuori di essa, perché il carcere non è mera contenzione, semmai occasione di reinserimento sociale.

L’esperienza teatrale è un compendio di fattori trattamentali: istruzione, formazione professionale, attività sportiva, attività ricreativa, lavorio psicologico guidato, relazione con l’esterno e all’interno della struttura carceraria, rapporti con la famiglia. Così il teatro-carcere, favorendo la risocializzazione del reo, concorre a rendere più sicura l’intera società dove farà ritorno la più larga parte dei detenuti, una volta scontata la loro pena. Proporlo, diventa così un intelligente esempio di altruismo interessato, come spiega bene Horacio Czertok: «Spesso mi chiedono perché facciamo teatro nel carcere. […] Mi sono trovato a rispondere: queste persone qui, i detenuti, prima o poi usciranno. E verranno a vivere vicino a casa mia: come voglio che sia il mio vicino di casa?».

Buona lettura.

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