Azionista, repubblicano dimenticato nel dopoguerra
Paolo Guzzanti — 11 Settembre 2022

Aveva un grande corpo, l’espressione severa: forte, lungo e vecchio, vestito con un abito scuro a doppio petto, fu così che lo vidi la prima e l’unica volta deceduto nella sua casa romana di Vigna Clara il 14 aprile del 1991. Ero al telefono con Giorgio La Malfa che lesse un messaggio e disse: «È morto Pacciardi. Io vado a trovarlo. Mi accompagni?». Abitava in una palazzina dietro via Ronciglione, una zona ancora abitata più da pecore che da esseri umani. Davanti alla morte, specialmente di uno sconosciuto benché personaggio storico, non sa mai che faccia fare e così mi misi a scannerizzarlo con gli occhi come se dalla mia ispezione potesse emergere da quel corpo una rivelazione della sua storia.
Il nome di Randolfo Pacciardi dirà ormai poco a chi ha meno di cinquant’anni, perché da tempo si è spento sia il livore, che l’ammirazione, nei suoi confronti. Morì a 92 anni nel 1991, quasi dimenticato. Era stato un presidenzialista e vedeva molto volentieri se stesso in quel ruolo per il quale si sentiva con molta ambizione predestinato. Era uno di quei toscanacci più simili a Malaparte che agli intellettuali: figlio di un ferroviere originario di Castagneto Carducci, con un’istruzione piuttosto modesta alle scuole tecniche di Montepulciano, fece appena tempo a prendere il diploma che era già militare al corso allievi ufficiali perché apparteneva a quel genere di persone alla Lussu che consideravano la guerra un’occasione e fu decorato anche dagli inglesi con la Military Cross. Poi scese personalmente in guerra armata col primo fascismo e nel 1924 organizzò una sua “marcia su Roma” con 2000 ex combattenti, fra cui Peppino e Sante Garibaldi.
Diventò presto la primula rossa della polizia fascista e passò molto tempo a fuggire sui tetti di Roma prima di accogliere la proposta della vedova di Cesare Battisti che lo invitava a Trento. Fece base a Lugano, mitica patria degli anarchici in fuga (“Addio Lugano bella, oh dolce terra pia, cacciati senza tregua gli anarchici van via”). Da lì cominciò a lavorare come un cospiratore e un ufficiale esperto di cose militari. I suoi compagni organizzavano attentati contro Mussolini e voli pirata sopra Milano e il compito che si era messo in testa era molto simile a quello che in Francia avrebbe svolto il giovane colonnello e specialista di carri armati Charles de Gaulle in Francia. Detestava i comunisti quanto i fascisti accusando entrambi di costituire una sola famiglia politica nemica dell’Italia democratica e repubblicana. Al congresso di Parigi del 1933 batté la sinistra di Ferdinando Schiavetti che voleva introdurre il socialismo comune obiettivo finale dell’Italia liberata dal fascismo e fu eletto segretario. In questo modo si consumò una rottura anche con i comunisti che avevano sperato in una alleanza di tipo frontista con lui e con i socialisti di Pietro Nenni esule in Francia.
I fascisti riuscirono a imporre al governo federale elvetico l’espulsione di tutti gli antifascisti da Lugano con gli anarchici. Nel gennaio del 1933 Adolf Hitler vinse le elezioni in Germania e diventò legalmente il Cancelliere del Reich. La nuova situazione era sempre più esplosiva e tutti nel fronte antifascista auspicavano il ricorso alle armi, un obiettivo che diventò possibile con l’inizio della guerra civile spagnola quando la Repubblica fu aggredita da un corpo di spedizione coloniale guidato dal generale Francisco Franco. Pacciardi nel giro di tre anni, nel 1936, diventò uno dei capi militari della battaglia di Madrid e insieme a Carlo Rosselli schierò sul fronte di Guadalajara le Brigate Garibaldi che si scontrarono direttamente con il corpo di spedizione fascista mandato da Mussolini. La brigata Garibaldi (combattevano anche anche Peppino e Sante Garibaldi) sbaragliò il corpo di spedizione fascista che si arrese e i cui componenti furono rimessi in libertà e rispediti in Italia dopo un umiliante pubblico interrogatorio in cui furono rivelate molte atrocità commesse dai fascisti. A Roma quella sconfitta fu presa malissimo e Mussolini chiese a suo genero e ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, di liquidare Carlo Rosselli e Pacciardi. Ciano eseguì la missione arrivando a un accordo con la “Cagoule” una organizzazione militare di destra che si impegnò ad esaudire i desideri di Roma. Pochi ricordano, che fra i giovanotti di mano della Cagoule c’era anche il giovane Francois Mitterrand che molti decenni dopo diventò il leader socialista e uno dei più amati presidenti francesi.
Ma non c’erano solo i successi degli italiani di Giustizia e Libertà, fondata da Carlo Rosselli che fu ucciso in un agguato di tiratori scelti appostati lungo la strada che stava percorrendo col fratello. I comunisti avevano a Madrid come emissario di Stalin il famoso e temuto “Ercoli” nome di battaglia di Palmiro Togliatti, cittadino sovietico e vicesegretario del Comintern. Nel maggio del 1937 a Barcellona si svolse un regolamento armato dei conti fra comunisti e antifascisti non controllati da Mosca e quasi tutti gli anarchici. Togliatti fu poi chiamato a Mosca per firmare le condanne a morte di tutti i dirigenti comunisti polacchi accusati di essere fascisti. Pacciardi dopo la sconfitta della Repubblica si nascose con la moglie in Francia dove restò fin quando Parigi fu occupata dai tedeschi in una fase della guerra in cui i comunisti di tutto il mondo, fedeli alle direttive di Stalin alleato di Hitler, davano la caccia a tutti gli antifascisti anticomunisti e quello fu veramente il momento della rottura irreversibile fra i repubblicani, le brigate Garibaldi di Giustizia e Libertà e i comunisti.
Pacciardi riuscì a riparare negli Stati Uniti dove rimase fino alla fine della guerra, quando poté tornare nella patria liberata. In America costituì una brigata di volontari italiani che combattè al fianco degli americani dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbour. Quando tornò in Italia grazie agli americani organizzò subito le fila del nuovo Pri tenendolo fuori dal Comitato di Liberazione Nazionale che secondo Pacciardi si era macchiato di un’infamia imperdonabile: aver trattato con il re. La sua intransigenza non cessò neppure quando in Italia, su imput del presidente americano John Kennedy, fu varata la formula quasi rivoluzionaria del Centro-Sinistra con i socialisti – come diceva lo stesso Nenni – “nella stanza dei bottoni”. Pacciardi non voleva sentir parlare di centro-sinistra e non si fidava di Pietro Nenni che aveva ricevuto (e più tardi restituito) il “Premio Stalin per la pace”.
E poi il presidenzialismo: l’impresa di De Gaulle nel 1958, quando fu richiamato a Parigi da tutti i partiti per scrivere una nuova Costituzione ed occupare l’Eliseo come capo della Francia, lo portò a formulare il desiderio proibito: fare in Italia come la Francia: e chi meglio di lui poteva rappresentare l’Italia che resiste, che combatte, vince e non intende aprire ai comunisti? La sua storia di impeccabile antifascista, di repubblicano ma anche di deciso anticomunista diventò d’impaccio dopo una prima fase della sua vita politica in Italia durante la quale fu ministro della Difesa. Era un uomo di sinistra, non c’è dubbio. Di quella sinistra antifascista e inflessibile che lo portò al grado di comandante durante la guerra civile spagnola, cui parteciparono quasi tutti i futuri leader dei partiti, ma era uno di quei patrioti di frontiera, condannato alla “damnatio memoriae”, la morte per oblìo, perché apparteneva a una tradizione interventista. A buttarlo fuori dal partito, alla fine della sua vita fu il ferreo Ugo La Malfa, uno degli artefici e promotori della creazione del centrosinistra in Italia.
Il motivo politicamente formale era che Pacciardi non poteva mettere il bastone fra le ruote di un’alleanza con la Dc e i socialisti di Nenni che era il cardine della nuova strategia atlantica. Ma Pacciardi fu sommerso da una violentissima campagna di stampa e televisiva in cui specialmente i democristiani lo accusavano di mire golpiste. I comunisti lo avversavano per ovvi motivi di schieramento storico, ma mai quanto i democristiani che avevano reagito malissimo quando in Francia la quarta Repubblica era crollata. La Democrazia Cristiana aveva fondato la sua potenza e la sua capacità di imporre la sua volontà grazie a un patto interno non scritto: il partito cattolico non aveva alcuna difficoltà ad ospitare uomini di estrema sinistra e di estrema destra, populisti come Fanfani e sindacalisti come Donat Cattin. Ma la formula democristiana, regolata dal famoso “Manuale Cencelli” consisteva in un continuo e periodico avvicendamento di governi democristiani, con presidente del Consiglio democristiano e la capacità di mandare al Quirinale un democristiano. L’impressione che l’Italia avesse una istituzione fragile che la costringeva a subire continui cambi di governo, era sbagliata: l’avvicendamento democristiano prevedeva rotazioni calcolate da una grande ruota a ingranaggi perfettamente oliata. Nella Dc era solo necessario contare e contarsi, il manuale delle proporzioni faceva il resto.
Il pessimo esempio offerto dalla Francia con la consegna dei poteri partitici ad un solo uomo onnipotente fece scatenare nella Democrazia Cristiana una campagna ferocissima contro chiunque in Italia avesse manifestato tentazioni e tendenze simili. I comunisti erano d’accordo perché si sentivano tranquilli e dall’avvento di De Gaulle in Italia fu scatenata una vera caccia al presidenzialista che era (ed è) vissuto come un ostacolo e anzi un impedimento ad una politica nazionale fondata sulla competenza e un indubbio leaderismo (come accade del resto con formule diverse in quasi tutte le liberaldemocrazie) e dunque condannata a priori come una forma di fascismo mascherato, e comunque di assalto modernista al sistema collaudato e ben oliato degli ingranaggi del manuale Cencelli. Pacciardi aveva sdegnosamente rifiutato il modello democristiano e morì dimenticato e vituperato come un attentatore della Costituzione.
Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
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