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“Dopo 24 anni di privazione della dignità, da uomo libero ho corso verso il sole con il gusto della vita in bocca” – Il Riformista

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G. ha espiato una pena di 24 anni, tra carcere, lavoro esterno e il regime di semilibertà. Mentre il mondo fuori correva e cambiava rapidamente, lui ha trascorso gli anni della sua giovinezza lontano dalla vita vera e dalle sue evoluzioni anche tecnologiche. A un certo punto gli è stata data la possibilità di poter lavorare all’esterno. Racconta la sensazione di poter mettere un piede fuori dal carcere dopo 14 anni che era recluso. E anche la miriade di contraddizioni e intoppi che devono affrontare i detenuti che riescono a ottenere la possibilità di lavorare all’esterno del carcere. “La privazione della dignità di un uomo o di una donna continua, anche fuori, in altri termini, sotto altra forma ma persiste”, scrive. Poi è passato alla semilibertà, e dopo all’affidamento in prova ai servizi sociali. La “libertà” diventa così un cumulo si sensazioni contrastanti, le contraddizioni continuano: “Sei fuori, ma non sei libero”, scrive G. Poi è arrivato quel momento che ha tanto aspettato, la fine della pena, la libertà vera. “Quando i carabinieri ti comunicano la scarcerazione, corri. Corri verso il sole, con un sapore del tutto nuovo, corri con il gusto della vita in bocca. Ed è un gran bel gusto, scopri che la vita ha un gran bel sapore”. Riportiamo di seguito la lettera di G. a Sbarre di Zucchero.

Sono stato condannato a 24 anni. Ho compiuto 21 anni in carcere. Nel 2013 ho avuto accesso all’art 21 esterno, erano 14 anni che non mettevo piede fuori, permessi esclusi. Prima esperienza di lavoro una cooperativa sociale che si occupava di manutenzione del verde. Per accedere a questa misura serviva aver raggiunto alcuni termini di espiazione pena, avere una proposta di lavoro e una relazione di sintesi che si esprimesse positivamente su quella che viene chiamata esperienza extra muraria. Se per l’equipe che redige la relazione di sintesi sei pronto, se il magistrato di sorveglianza è d’accordo e il PM non si appella, viene redatto un programma di trattamento contenente delle prescrizioni molto precise e dettagliate. Al primo “sgarro” la misura può essere sospesa o revocata. La teoria dice questo. La pratica è un po’ diversa.

Nel programma di trattamento trovi scritto che non puoi fare uso di un telefono cellulare. Peccato che nel mondo esterno non esista altro strumento di comunicazione. Io che avevo persino saltato il boom del web, delle mail e dei social, sarei stato completamente tagliato fuori, se qualcuno non mi avesse aiutato. Ti dicono che puoi mandare una mail. Peccato che non tutti sappiano cosa sia e come si fa. Non hai la patente, quindi ti muovi in bicicletta. Questo vuol dire che se abiti a Palermo ti bagni 10 volte su 100 giorni, ma se abiti a Padova ti bagni 70 giorni su 100 giorni. Se stai male, sei come lavoratore tutelato dalla malattia, peccato però che se ti senti male nella notte, dopo aver fatto rientro, risulta difficile comunicare al numero della reperibilità della tua azienda che alle 05 del mattino non potrai essere in turno.

Impensabile modificare gli orari contenuti nel programma di trattamento, quindi se l’azienda che ti assume ha bisogno per esigenze di servizio di cambiarti il turno, o di chiederti straordinario non può minimamente contare su di te, anche se risulti essere il dipendente più volenteroso e affidabile. Il tuo compenso viene versato dall’azienda che ti assume in un libretto di risparmio intestato al carcere, e gestito da un ufficio addetto denominato conti correnti che amministra per tuo conto il denaro. Se vuoi comprarti una maglia, devi avere qualcuno che ti presta quella cifra, presentare ai conti correnti la richiesta di rimborso, e loro con i loro tempi ti rimborseranno la cifra spesa. Idem se devi malauguratamente andare dal dentista, o se vuoi comprare un regalo. Tu non sei padrone dei tuoi soldi. Gli stessi soldi che ti sei sudato tagliando l’erba nelle aiuole.

Così la privazione della dignità di un uomo o di una donna continua, anche fuori, in altri termini, sotto altra forma ma persiste. Il tuo datore di lavoro, deve sempre interfacciarsi con la casa di reclusione di appartenenza se ha una qualsiasi esigenza, l’ufficio apposito che si occupa dei detenuti ammessi al lavoro esterno risponde quando riesce, perché ovviamente in termini di numeri sono sempre oberati. Nel frattempo, l’attesa per il datore di lavoro diventa un limite oggettivo, quindi alla prima possibilità, tu sei sempre quello più sacrificabile. L’unica alternativa in termini di comprensione sono sempre le cooperative sociali, che non comprendono perché sono umane, ma perché hanno un comprensibile ritorno economico che gli permettere di essere un po’ più pazienti. Ecco perché c’è stato un avvento di cooperative sociali che accolgono persone “svantaggiate”.

Dopo l’art.21 esterno, sono passato alla semilibertà, e poi all’affidamento in prova ai servizi sociali. Quest’ultima misura, tra tutte, la più rigida e la più rischiosa. Termini di accesso: lavoro sicuro, una residenza, una capacità economica utile al sostentamento del nucleo che sei o che crei, obbligo di prestare opera di volontariato. Se inceppi, in qualsiasi momento, torni dentro, e il tempo espiato, viene resettato. Cancellato. Torni indietro dallo start senza passare dal via, un po’ come al Monopoli. Solo che qui gli imprevisti e le probabilità non sono ammessi. Tenendo conto dell’epoca storica, è impensabile per tutti quelli che raggiungono i termini giuridici averne accesso, ma resta l’unica misura che ti permette di chiudere con le sbarre, le guardie, i cancelli, e di riprendere in mano con fatica la tua vita.

Inizi a rispondere solo all’UEPE (Unione Esecuzione Penale Esterna) e alle forze dell’ordine responsabili di controllare il rispetto delle prescrizioni. Esci per andare a lavoro, hai qualche ora di svago che devi motivare con un hobby, e devi incastrare il volontariato. Nel tempo che resta puoi pensare a te stesso. Una volta concessa la misura ti chiama la casa di reclusione e ti chiede di andare prima possibile a prendere le tue cose. Caspita, dopo che per anni ti trattengono in un posto, e si accertano mille volte che tu sia rientrato, ad un certo punto devi raccogliere velocemente tutto e andartene. Cosa si prova? Mah. Di tutto, è un misto di emozioni e sensazioni, che solo con il tempo riesci ad elaborare. Ti dicono di prendere le tue cose, io ho ritirato le carte per la scarcerazione, foto segnaletiche come quando arrivi, firme come se fossi un divo del cinema, di mio non ho preso quasi niente, ho regalato tutto. Eravamo d’accordo che a casa non avrei portato niente. Ed effettivamente non volevo niente, mi portavo già dentro un peso e un bagaglio di stati d’animo e vicissitudini che sarebbe rimasto dentro di me per sempre, non mi serviva altro.

La mia vita ormai era fuori già da tempo. Non avevo un sacco, io. Molti però vengono sbattuti fuori con un sacco nero. Li vedi alla fermata del bus o per la strada con dentro un mondo in un sacco di plastica. Sono loro quelli che come me stanno uscendo per riprovarci fuori. Non ero smarrito, lo smarrimento lo avevo provato già anni prima appena uscito per la prima volta. Ero però destabilizzato. Per quanto fin dal primo giorno che entri, non vedi l’ora di uscire, quando questa arriva così tra capo e collo, sei destabilizzato. Per un paio di giorni, mi sono sentito frastornato. Poi tutto ha iniziato a funzionare, e mi sono buttato in questa nuova avventura. Colloqui mensili con l’assistente sociale, è a lei che chiedi di muoverti o spostarti, è lei che filtra le tue richieste all’ufficio di sorveglianza, che le tara e le corregge secondo il suo senso del giusto.

Sono compresi come in ogni rapporto, gli sforzi, le incomprensioni e le arrabbiature. E anche i fraintendimenti. Le fatiche e i nervosismi. E’ ingannevole come misura. Sei fuori, ma non sei libero. Hai del tempo per te, ma non è tuo il tempo. E dalle 21.00 alle 05.00 del mattino che erano i miei orari, l’unico modo per verificare che io avessi rispettato rientro e uscita era quello di suonare il campanello. Ognuno fa il suo mestiere. Non c’è inverno o freddo che tiene, se suonano devi farti vedere. Ma sei a casa. Ormai hai imparato a vedere il lato positivo delle cose, e la libertà ha solo lati positivi. Ormai ti sei di nuovo fatto spazio nel mondo. Ormai sei di nuovo in gioco. Sei di nuovo vivo, autonomo e responsabile del nucleo famigliare che sei hai avuto fortuna sei riuscito a creare. Senti di nuovo la vita che ti scorre tra le mani. La libertà che trasuda da ogni poro della tua pelle. L’affidamento dura due anni. E due anni davanti ad una pena così lunga cosa vuoi che siano. Te li bevi in un bicchiere d’acqua due anni. Così quando i carabinieri ti comunicano la scarcerazione, corri. Corri verso il sole, con un sapore del tutto nuovo, corri con il gusto della vita in bocca. Ed è un gran bel gusto, scopri che la vita ha un gran bel sapore.

a cura di Rossella Grasso

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