Dietro le stelle di Visintin c’è il lato oscuro della ristorazione (e ci siamo noi).
“I giornalisti sono i nuovi influencer del food”.
Oibò. Per fortuna a un certo punto il valente Valerio M. (nel frattempo diventato Massimo) Visintin scrive: “Naturalmente, esistono sane eccezioni: ogni tanto lo ripeto, per evitare che la minoranza silenziosa delle brave persone si armi di pietre e mi prenda a bersaglio”. Meno male perché noi, che ci reputiamo “brave persone” (chi non si reputa tale, del resto…), eravamo già a caccia di qualche pietra ollare da scagliare contro l’insolente Visintin.
Che ha scritto un libro fondamentale per chi si approccia al mondo della ristorazione con spirito critico, per chi non beve gli entusiasmi prezzolati dei content creator, già influencer, sui “soliti piccioni, i polpi alla plancia, gli identici grissini lunghi, stretti e nodosi come giunchi”.
Per chi non considera la stella Michelin alla stregua dei Nobel (peraltro da ridimensionare anche loro). E per chi si irrita per il clima da volemose bene della grande famiglia di chef, proprietari, gestori, recensori, influencer, parenti e marchettari vari, che si avvinghiano in un abbraccio incestuoso e per nulla virtuoso. Virtuoso per le persone comuni, s’intende, cioè i clienti dei ristoranti e i lettori di siti, guide e profili social.
Recensire un libro di Visintin fa sempre sudare freddo. Scorri le pagine freneticamente cercando il tuo nome o quello del tuo sito. Cosa avrò scritto nel 2002? Avrò detto che un ristorante di Anguillara Sabazia fa un ottimo abbacchio e Visintin avrà scoperto che il cugino di secondo grado dello chef è in affari con il figlio di una mia ex? Avrò usato un aggettivo fuori posto, incensato un locale che piace a Identità golose, apprezzato un tavolo senza tovaglia, un pesce scaloppato, una cacio e pepe con i gamberi? Si scherza, naturalmente, ma non troppo perché la fama del Visintin corrisponde al vero. Nel libro, infatti, il critico del Corriere della Sera non si tira indietro e tira sassate contro “conflitti d’interessi, nepotismi, bustarelle, regali sottobanco, marketing in maschera, barbarie grammaticali, bugie, commenti cretini“.
Ci finisce sotto, come sempre, “la guida dei gommisti”, che sarebbe la Michelin; Identità golose, “il carrozzone che ha inventato e pasciuto la mitologia dei cuochi, con il suo ideologo Paolo Marchi“; gli chef che benedicono l’acqua come Pietro Leeman; giornalisti come Cristina Viggè e Niccolò Vecchia; “il piccolo Cesare” della guida dell’Espresso Enzo Vizzari; i deliri linguistici di Andrea Griffagnini del Gambero Rosso; Gualtiero Marchesi, “che non fu per niente un genio” e che non gli “consentiva” di criticarlo. Non contento, Visintin se la prende con la Nestlè, paladina dell’alta cucina con la guida Michelin e non immune da colpe sull’italian sound e altro; massacra gli Ambasciatori del gusto, quel “tomone trabocchevole di rèclame” che è la guida dell’Espresso, e infierisce perfino sul mite Marco Bolasco, che pensava fosse un “libero pensatore” e invece è un “pensatore apolide”, reo di avere stipulato, insieme a Giunti, una partnership con Identità golose.
Come si vede un elenco chilometrico (qui lo abbiamo tagliato, altrimenti non leggete più il libro e Visintin ci chiede i danni), che si innesta su una critica sempre brillante e sempre vibrante del mondo luccicante della ristorazione, vista come una bolla che è stata gonfiata dalla voracità dell’imprenditoria, con il corollario di molti affari della mafia, dagli intrecci perversi della comunicazione con il giornalismo e da una deontologia ormai del tutto assente. Il libro è bello, lo scriviamo perché è vero e perché speriamo di guadagnarci l’indulgenza dell’autore (che peraltro scrisse una prefazione per la guida di Puntarella Rossa e, a quattro mani, un “manifesto del recensore incappucciato”, lo diciamo naturalmente come captatio benevolentiae).
Qualche riserva l’abbiamo sulla violenza iconoclasta della critica, che rischia di diventare una sorta di populismo gastronomico, un j’accuse indiscriminato alla casta degli chef, agli scrocconi della “critica” travestiti da influencer e giornalisti, ai furbetti del comunicato. Tutto sacrosanto, per carità, siamo d’accordissimo e noi che ci reputiamo “brave persone” ci indigniamo da anni per cene stampa (a cui non partecipiamo), per pubblicità pagate di ristoranti (che non accettiamo), per marchette mascherate (che non facciamo).
Il risultato è che dicendo di no alle molte mail quotidiane di ristoranti e locali che vogliono “collaborare” per una recensione, paghiamo poco i collaboratori (ma li paghiamo), perché da anni siamo in equilibrio: nel senso che i ricavi sono zero, ci reggiamo in uno stato precario che non consente di dare un servizio migliore ai lettori (ma non siamo male, dai) e di far guadagnare abbastanza ai nostri giornalisti (che infatti spesso ci salutano e finiscono in posti più remunerati).
Ci chiediamo solo – con il rischio di finire dalla parte dei cattivi – se tanta foga non finisca per indurre nel lettore l’impressione che sia tutto marcio, tutto da rifare. E non si traduca poi in un affondo, stile 5 stelle, contro i totem della casta e la competenza degli chef e di chi scrive (molto spesso incompetente, d’accordo, è questo è il problema). Il sospetto viene anche per il reiterato sostegno a Tripadvisor. Visintin lo difende da sempre e insiste ancora oggi: “Ho letto invettive, accuse di brogli e di infamie. Le malefatte della nostra categoria, vivacemente popolata da guitti e da cialtroni, erano marachelle puerili a confronto della ferocia del malvagio Trip”. Che per l’autore è invece uno specchio piuttosto fedele, come ha spiegato a Rolling Stones: “Tripavisor è l’unico modo per avere una visione d’insieme. Scartando le recensioni più estreme, sia in positivo che in negativo, si può arrivare vicini alla verità“.
Ci perdoni: va bene, siamo cialtroni e ladri, guitti e venduti, ma come non leggerei mai un libro consigliato dal mio calzolaio o dal mio commercialista (sì dal mio enotecaro, ma lui è speciale), non andrei mai in un ristorante consigliato dal mio arredatore o dal mio datore di lavoro. Ancora peggio se, conoscendo il mezzo, so che ci sono decine di commenti finti fatti da profili fake e bot (fateci caso, quelli che hanno fatto solo una recensione) e decine di commenti di concorrenza sleale e di deficienti in purezza. Fenomeno, poi, che incide ormai in modo molto più forte su guadagni e perdite dei ristoratori rispetto alle recensioni di noi vecchie carampane della stampa e dell’Internet.
Detto questo, le 17,5 euro del libro (Mondadori, lo abbiamo acquistato, non l’abbiamo chiesto in omaggio né all’autore né all’ufficio stampa) valgono tutte. Sperando che la sua mannaia si abbatta lontano da noi, salutiamo il Visintin suggerendogli un seguito, un “Dietro le stalle – Il lato oscuro delle trattorie”, contro la finta tradizione, le hostarie tarocche, il mito del low cost a tutti cost, la tovaglietta a quadri e il localaccio sporco e ignorante con il vino metanolato a 2 euro al bicchiere.
Dietro le stelle, Valerio Massimo Visintin, Mondadori