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Conte e Calenda sono i veri sconfitti delle elezioni regionali – Il Riformista

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Lo scenario delle politiche

Michele Prospero — 16 Febbraio 2023

Conte e Calenda sono i veri sconfitti delle elezioni regionali

La partita delle regionali era da tempo scontata. Come prevedibile, è riemerso lo scenario delle politiche. Anch’esse furono vissute dagli elettori con sfiducia, quale evento dal risultato già annunciato. L’onda di settembre continua dunque a febbraio. Una destra coalizzata fa il pieno dei voti, tra quelli almeno che ancora si ostinano a partecipare ai riti delle schede.

La maggioranza bulgara degli astenuti è però il primo dato da registrare. Il governatore senza popolo infrange il mito del presidenzialismo regionale. Non è l’investitura diretta di un capo a ricaricare la legittimità della politica e la partecipazione. La destra accelera per il presidenzialismo non certo per risolvere il nodo della perdita di consenso delle istituzioni, ma per edificare un regime della passivizzazione a lei più congeniale. La grande fuga dei cittadini dalle cabine è, sul versante più politico, in larga parte legata all’effetto scoraggiante delle sussistenti divisioni nel campo delle opposizioni. Non si può giocare una contesa con due logiche antitetiche, quella aggregativa della destra e quella isolazionista del centrosinistra.

La gara maggiore, la conquista della Pisana e del Pirellone, era già risolta. Vince chi si coalizza, non partecipa alla contesa cruciale chi preferisce marciare diviso. L’astensione nasce dalla competizione asimmetrica tra una santa alleanza e un’armata Brancaleone. La politologia riflette da tempo persino sulla razionalità della scelta di partecipare al voto. Già quando il singolo elettore può confidare in una possibilità di successo, l’utilità della fila nei seggi va comunque giustificata con i cavilli sottili della teoria dei giochi. Con davanti la solida certezza della sconfitta, scommettere sugli effetti strategici della partecipazione diventa allora un’operazione fortemente problematica per chiunque. Lo scoraggiamento, per la sensazione di un effetto assai limitato della propria scheda, induce al fenomeno dell’apatia di una larga maggioranza.

L’elettore medio non può decidere di dedicare tempo e risorse per andare ai seggi al solo fine di testimoniare una fedeltà simbolica, mettendo una croce che allo scrutinio risulta priva di conseguenze. La percezione di una carica monocratica di governo non contendibile rende la competizione priva di attrattiva e la depotenzia di quella drammaticità che induce al prendere parte. La costruzione di un’offerta coalizionale credibile, che mostri come la posta in gioco sia aperta nel giorno delle elezioni, è la sfida prioritaria per il Pd. Nella sconfitta assai cocente, il Nazareno rimane comunque la forza decisiva per tracciare un’alternativa. Nella seconda competizione, quella di chi balla da solo, il Partito democratico si piazza molto bene e brucia i tentativi di chi vuole condannarlo all’irrilevanza. Il fallimento della strategia di Calenda è palese. L’autonomia di un centro concorrenziale ai democratici, e con un potenziale di ricatto da esprimere anche nella minaccia di rottura in caso di allargamento delle alleanze al M5S, è saltata per l’irrilevanza numerica.

Altrettanto arenata pare la velleità di Conte di proporsi come il punto di riferimento del campo dei progressisti in grado di lucrare, proprio negando l’alleanza, i consensi a un Pd da spingere alla deriva. Il sentimento di angoscia, per il peso paralizzante dei reciproci veti tra grillini e calendiani, non ha impedito ai democratici di rintuzzare le aggressioni dei due avversari dagli obiettivi convergenti. Neanche il soccorso della sinistra di Fratoianni, che nel Lazio rompe con il Nazareno e i Verdi, aiuta Conte a tallonare il Pd per prenderne il posto a furor di sondaggi. Non è andata bene l’operazione ardita di destituzione del Partito democratico nata sotto la benedizione delle penne unificate dei due quotidiani dei “Travajadores”, Il Fatto e il Manifesto. Rompendo il silenzio elettorale, Gad Lerner, che conduceva la rubrica radiofonica “Prima pagina” della Rai, ha anche letto le congiunte dichiarazioni di voto pro-grillino dei due fogli.

Ma i consensi alla conduttrice di “Linea blu” non sono ugualmente venuti. Sinistra italiana, fuggendo dal Pd per mettersi al riparo sotto lo scudo dei 5 Stelle, è stata umiliata nelle elezioni laziali. I vecchi sodali dei Verdi hanno tenuto le posizioni, mentre la creatura di Fratoianni è evaporata raccogliendo una manciata di voti in più di una lista esangue che addirittura si chiama Pci. Il Pd ha paradossalmente incassato i benefici dell’effetto Letta. La semplice lontananza dalla battaglia di un leader percepito come il responsabile principale dello scasso storico del 25 settembre ha restituito una qualche funzione ai democratici. L’idea accarezzata da De Benedetti di una distruzione creatrice, cioè lo scioglimento del Pd per inventare dalle ceneri una cosa nuova, è naufragata per manifesta assurdità. La responsabilità della ricostruzione di una opposizione efficace, che lavori all’alternativa di governo, ricade principalmente sulle spalle del Partito democratico.

Adesso che Letta, uno degli impedimenti al progetto di una coalizione larga, sta per essere rimosso, secondo le folli regole di un lunghissimo congresso, sarebbe auspicabile l’accantonamento anche degli altri volti divisivi (Calenda e Conte su tutti), responsabili del tracollo e testimoni di una vecchia stagione da archiviare. Il passaggio di fase da scongiurare è questo: a settembre la destra ha vinto, ma senza sfondare nella società, considerato che solo le divisioni l’hanno agevolata; ora però il vero rischio è che il collante del potere, e il conformismo di massa che la gestione delle risorse riesce sempre a sollecitare, determinino una slavina che renda epocale il dominio di un blocco conservatore e reazionario.

Magari bastasse, per venirne fuori, una dotta disquisizione maxillo-facciale per distinguere, con riferimenti solidi alla dottrina storico-estetica, tra il naso ebreo e il naso etrusco. Con i livelli infimi di cultura politica riscontrabili nel centrosinistra dopo un decennio e più di letargo, e con la crisi profonda di un indispensabile soggetto di tenuta democratica come il movimento sindacale, la ripresa di un’alternativa democratica richiede una paziente impresa collettiva che recuperi capacità di pensiero, di organizzazione, di rappresentanza sociale.

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