Rino Germanà attraversa sovrappensiero il lungomare di Tonnarella in Panda. “Che fa questo?”, dice tra sé e sé. “Che cazzo vuole questo?”. Pochi attimi ancora e gli sparano addosso. “Questo” era una Fiat Tipo che aveva visto avvicinarsi sempre più dallo specchietto retrovisore. A bordo un commando d’eccezione: Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro – quest’ultimo arrestato oggi, a Palermo, nella clinica La Maddalena, quartiere San Lorenzo, dopo quasi trent’anni di latitanza. A indagare per primo sulla “Primula Rossa” di Cosa Nostra il Commissario di Polizia di Mazara del Vallo Calogero Germanà detto Rino. Era il 14 settembre 1992 quando il commando di boss, tra i più spietati e potenti della Mafia, provò a farlo fuori, in pieno giorno sul Lungomare di Mazara del Vallo. “Non sono un eroe, non sono un poliziotto da film americani, sono una persona normale. Era destino che non dovessi morire quel giorno, non avevo qualità migliori dei tanti poverini che sono morti in quegli anni”, racconta a Il Riformista.it.
Il suo ultimo incarico da questore di Piacenza fino al 2017. Catanese, aveva quarant’anni, una moglie e due figli di 12 e 10 anni all’epoca dell’agguato. A iscrivere per la prima volta il nome di Messina Denaro in un fascicolo, nel 1989, era stato Paolo Borsellino. “Un grande magistrato e io un normale poliziotto. È il grande magistrato che fa grande il poliziotto”. Borsellino meno di due mesi prima era stato ucciso in via D’Amelio. A maggio era toccato a Giovanni Falcone a Capaci. Erano i giorni delle stragi di Cosa Nostra. Germanà aveva consegnato un rapporto su Messina Denaro figlio e sul padre Francesco, detto don Ciccio, capofamiglia di Castelvetrano molto vicino ai corleonesi di Totò Riina. “Quella mattina torno da una perquisizione intorno alle 11:00 e mi chiama mia moglie: mi dice che devo portare nostra figlia al mare. E così faccio, poi vado a Castelvetrano per un interrogatorio e ritorno intorno alle 14:’00”.
È già sullo scooter quando un agente che a volte gli faceva da autista lo ferma. “‘Dottore, oggi pomeriggio dobbiamo essere a Trapani, dal questore’, che ci voleva vedere: dovevamo parlare dello scioglimento di un consiglio comunale. ‘Lasci il motorino, prenda la Panda, che dobbiamo sostituire i freni’”. L’officina della polizia è a Trapani. Sarebbero andati con due auto e con altre due precedentemente in manutenzione sarebbero tornati a Mazara. “Io ero già salito sul motorino, e lo lasciai. Era destino”. Germanà passa per casa: ha un quarto d’ora di terapie con un massaggiatore, è podista e ha problemi alla schiena. Quindi parte e una volta sul Lungomare Fata Morgana sente il rumore di un motore che accelera: è una fiat Tipo sbucata da una traversa.
“Sono sovrappensiero, vado piano, quando guardo nello specchietto e noto questa macchina che guida serpeggiando. Il motore imballato, mettendo la terza avrebbe preso velocità, io andavo piano, tenevo la seconda”. E pensa, appunto: ma che fa questo, che cazzo vuole? Al volante, avrebbe saputo dopo, era Messina Denaro. Pochi secondi e un uomo si sporge dal finestrino del passeggero, ha un fucile a pallettoni. Spara. “Sarà a un metro e mezzo di distanza. Mi rannicchio istintivamente, mi ferisce di striscio”. La rosa del pallettone non si apre del tutto, colpisce il finestrino e tira via metalli dello sportello. Quei vetri arrivano e restano nella regione parietale sinistra di Germanà, che dall’adrenalina non sente neanche il dolore.
“Si fermano un po’ più avanti, io scendo dalla macchina, prendo la pistola d’ordinanza e sparo. Prendo il lunotto posteriore, li disoriento. Provano a venire in retromarcia, io vado verso la spiaggia. Quello di prima appoggia il fucile sul tettuccio e sparato un altro colpo. Non mi prende. Dopodiché io li guardo, loro mi guardano, – che cazzo fanno chissi? mi dico – sembra che non sanno che fare, ingranano e se ne vanno”. Il commissario prova ad attirare l’attenzione: sulla spiaggia poca gente, qualcuno in acqua, ma quelli fanno inversione e tornano, si mettono sotto un muro di contenimento e tirano fuori un Kalashnikov.
“Comincia a sparare a colpo singolo. Io sento il sibilo terrifico e mi sposto, mica li vedo i colpi, ecco perché non era destino che morissi. Spara quattro cinque colpi, non mi prende e se ne vanno”. Dall’acqua lo chiamano, lo invitano a ripararsi. “Aspetta, un attimo, penso. Qualche tempo prima avevano fatto un omicidio arrivando dall’acqua: a questo penso. Nel frattempo quelli tornano un’altra volta e prendono a sparare a raffica col mitra, allora sì vado in acqua. Mica mi metto a nuotare, mi accovaccio, lentamente riemergo, non gli ho mai dato le spalle, mai perdere la calma anche se sono attimi”. Il Kalashnikov a quel punto si inceppa: Giovanni Brusca, anni dopo, avrebbe detto in udienza che “Bagarella le armi moderne non le sa usare”. Germanà in quei momenti non riconosce nessuno. “Commentando il mio attentato, tempo dopo, uno della famiglia mazarese si lamentava. Disse: ‘Ma come, lo chiamavano il Re del Kalashknikov’. E quell’altro: ‘Ma quale re del Kalashnikov, re della minchia!’”.
Il commando se ne va, Germanà chiama i soccorsi. Con tutta la famiglia viene trasferito in fretta in località protetta. La sua vita cambia per sempre nel giro di poche ore. Lo portano a Roma, non torna più a vivere in Sicilia. Solo per delle operazioni con il servizio centrale operativo, per delle testimonianze, in visita. Con la famiglia viene messo sotto protezione per qualche tempo. “Per dei bambini quello si chiama trauma”. Da allora non avrebbe mai più Messina Denaro. Con la moglie avrebbe avuto un altro figlio. Sul Lungomare gli hanno dedicato una targa commemorativa.
“Per me e per tutta l’Italia oggi è una giornata importante, è un’affermazione dello Stato. La legge ha trovato piena concretezza. Complimenti a tutte le forze di polizia. Quella di Messina Denaro è una pagina buia della storia italiana: ha segnato con le sue stragi la storia siciliana e la storia italiana”, aggiunge Germanà. “Durante la messa si dice ‘confesso a Dio e a voi fratelli’. A Dio non deve confessare niente perché i peccati che ha commesso Dio li conosce bene, ai fratelli cominciasse ad ammettere le sue responsabilità. Che poi questa confessione si chiami pentimento è un problema giuridico ma almeno così si fa chiarezza”. E a chi critica l’arresto, a chi solleva dubbi: “Guardiamo la realtà: era latitante da trent’anni, è stato catturato dai carabinieri, e sono stati bravissimi a catturarlo. Punto. La Giustizia trionfa sempre, il male non potrà mai avere la meglio sul bene”. Non è solo una questione di fede: “Lasciamo perdere la fede: io ho una famiglia e dei figli, sono padre di famiglia, guardo al futuro con una prospettiva di progresso civile e sociale, altrimenti qual è il senso? Ci può essere progresso con questa criminalità?”,
Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
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