Una Draghi in gonnella? Ma se così fosse che avremmo votato a fare? Ci tenevamo Draghi, no? La questione si pone in termini politici e perfino morali – cosa direbbe chi ha votato Giorgia Meloni in quanto unica oppositrice del precedente governo? – e costituirebbe un paradosso degno di Zenone: l’antidraghiana che diventa draghiana.
Oggi sentiremo dalla viva voce della presidente del Consiglio in Parlamento cosa c’è di vero e cosa no in questa chiacchiera delle ultime ore, una Draghi in gonnella appunto, suggestione rafforzata dal lunghissimo colloquio con l’ex premier prima che egli le cedesse con estremo garbo la famosa Campanella, dalla “assunzione” di Roberto Cingolani come advisor sulla politica energetica, dal cordiale incontro con Emmanuel Macron, grande amico di Draghi sin qui detestato dalla destra in quanto rappresentante dell’establishment anti-popolo.
Vedremo cosa dirà Meloni nelle dichiarazioni programmatiche sulle quali chiederà la fiducia delle Camere, ma le premesse paiono chiare: piena continuità sulla politica estera, a partire dalla linea sulla guerra di Putin, e immaginiamo grandissimo sfoggio di aplomb istituzionale con annesso auspicio all’unità del Parlamento sulle emergenze fondamentali.
Però la trasformazione della premier in senso centrista significherebbe discontinuità non solo con la Meloni prima del voto ma anche l’apertura di vistose contraddizioni con il putinismo alle vongole di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. E soprattutto, lo accennavamo, con il suo elettorato che il 25 settembre ha inteso dare un voto di rottura con il lungo decennio di tecnici, di un variopinto centrosinistra e del pasticcio in salsa contiana, un elettorato di destra che potrebbe ritrovarsi a sua insaputa dentro un capitolo non troppo distante da ciò che gli faceva schifo.
Siccome Meloni non intende certo annegare il tesoretto della luna di miele nello stagno di una grigia continuità, giocherà su un doppio registro e dunque su un’ambiguità eletta a programma: sarà centrista sulle cose politicamente più importanti, l’economia, la partita europea sull’energia, la guerra, ed estremista sugli aspetti “culturali”, valoriali, sull’informazione, la scuola, la società nei suoi gangli profondi, dalla famiglia al lavoro.
È una distinzione obbligata dal fatto che sui temi principali Meloni non ha una linea (quale sia la sua politica economica e industriale non ce l’ha mai detto), mentre sul resto qualcosa in testa ce l’ha, anche se finora, come dice la canzone, “sono solo parole”. Ma in questa contraddizione tra struttura e sovrastruttura, direbbero i marxisti, cioè tra le ragioni della politica e quelle dell’identità potrebbe annidarsi il baco del “melonismo”.
Ecco perché mentre è prevedibile che il trio Giorgetti-Salvini-Urso (rispettivamente Economia, Infrastrutture e Sviluppo economico) non produrrà novità strutturali, è da un altro trio, Valditara-Sangiuliano-Roccella, che potrebbe partire un’offensiva “egemonica” sul terreno dei diritti e della costruzione di un’idea nazionalistica e “popolare” di cultura.
Un po’ Draghi, un po’ dorotea, un po’ destra reazionaria: una miscela politico-culturale, tenuta insieme dal collante del potere da parte di figli di un Dio minore, che potrebbe anche rivelarsi di non breve momento. Difficile fare previsioni. Già si parla di una Meloni decisionista (una Craxi in gonnella?), persino di una donna sola al comando (una Renzi in gonnella?) ma tutto questo è come strologare su chi vincerà lo scudetto tra due anni.
A occhio la scommessa più difficile sarà come sempre sull’economia, terreno sul quale sarà molto difficile fare i draghiani senza Draghi: e su questo si vedrà prestissimo se la sfida di Giorgia ha un senso e un futuro. Per l’agenda valoriale c’è più tempo: se ce ne sarà, di tempo.