Giorgia Meloni non sembra il tipo da spettacolari metamorfosi democristiane che ci ha offerto Luigi Di Maio. E difficilmente finirà per iscrivere i suoi eurodeputati al gruppo del Partito Popolare europeo. Non è ancora chiaro se per convinzione o per necessità (per il momento optiamo per la seconda), ma è evidente un suo riposizionamento politico in Europa e nei confronti di Bruxelles a mano a mano che si avvicinano le elezioni del 25 settembre e si addensano quelle «nubi all’orizzonte» di cui parla Mario Draghi.
Nonostante la richiesta continua di elezioni anticipate, lei sperava tutto sommato che l’emergenza economica e sociale che esploderà in autunno se la beccassero tra i denti il premier attuale e il suo governo di unità nazionale. Che Matteo Salvini e Silvio Berlusconi ci mettessero la faccia, consentendo a Fratelli d’Italia di continuare a crescere a dismisura, più di quanto abbia fatto finora.
E invece potrebbe toccare proprio a lei la sorte politica di scalare da Palazzo Chigi questo tornante sotto l’acquazzone e la grandine. Senza l’esperienza diretta di aver governato un ente locale, con una classe dirigente inesperta perché non ha mai messo piede in un ministero, con addosso gli occhi del mondo occidentale e maghrebino, di Mosca e di Pechino.
Insomma, roba da far tremare le vene dei polsi. Ma viste le forze politiche in campo e i possibili esiti elettorali, le toccherà bere l’amaro calice del potere in uno dei momenti più complicati e pericolosi del nuovo secolo. E dimostrare che la propaganda, arrivando il momento fatale della mitica stanza dei bottoni, lasci il passo alla cruda realtà.
Ora, lasciamo perdere se sia vero o falso che anche Meloni, come mezzo mondo, abbia consultato Mr. Draghi, quello mandato a casa dopo che farà chiudere l’Italia con risultati economici migliori di Germania e Francia.
Speriamo che sia vero, che l’agenda Draghi contamini anche il centrodestra, che ci sia continuità nella politica estera. «L’occidente può contare su di noi», dice alla tv americana Fox Business.
Certo, che il premier le abbia pure indicato due ministri (Roberto Cingolani per la continuità nella transizione ecologica versione nucleare e Fabio Panetta, ex direttore generale Bankitalia e nel board della Bce, per l’Economia) sembra troppo. Ecco, lasciamo perdere pure l’assurda crisi di governo che Giuseppe Conte e il cosiddetto centrodestra di governo ci hanno inflitto.
Rimane la sostanza delle cose: avvicinandosi al potere in queste condizioni economiche, con il costo dell’energia alle stelle, con una guerra ancora in corso in Ucraina e la tensione di cui non si sentiva il bisogno attorno a Taiwan, il nazionalsovranismo scolora. E l’Europa poi non così cattiva.
Guido Crosetto, che nel prossimo governo avrà un ruolo importante, dice che in autunno occorre tenere la barra dritta: «Si tiene dritta sapendo che avremo bisogno di aiuto del contesto europeo e internazionale nel quale l’Italia è collocata». Siamo ancora alle dichiarazioni di intenti, un modo per scrivere il biglietto da vista da presentare durante il tour delle Cancellerie della futura premier. La quale in queste ore, guarda caso sta usando un concetto di Draghi: la credibilità internazionale è fondamentale per difendere gli interessi dell’Italia.
E allora indietro tutta. Per contrastare l’immigrazione certo ci vuole il blocco navale davanti alle coste della Libia, ma solo se si tratta di un’operazione europea. Campa cavallo. La flat tax al 15 per cento che vuole Salvini, un favore ai ricchi. Scostamenti di bilancio a go go? Vediamo che dice Bruxelles. Armi agli ucraini? Quante ne vogliono.
Attenzione, e che fine ha fatto la madre di tutte battaglie nazionaliste? Meloni per anni ha predicato che la norma nazionale a tutela degli interessi patriottici dovrà prevalere su quella comunitaria. L’ha pure scritto in una proposta di legge costituzionale, sua la prima firma. Ci aspettavamo di vedere questa riforma nel programma che in questi giorni il centrodestra sta mettendo a punto.
Siamo andati a legge i 15 punti e, sorpresa, non ce n’è traccia. Spiazzati, abbiamo chiesto lumi a uno dei due “sherpa” ai quali Meloni ha affidato il compito di scrivere il programma con gli alleati. Raffaele Fitto, che potrebbe essere il futuro ministro per gli Affari europei, ci ha confermato che la supremazia della norma nazionale su quella comunitaria non c’è nella bozza del programma e non ci sarà nella versione definita che firmeranno i leader della coalizione.
Lui non lo dice, ma è chiaro che non ci può essere perché sarebbe necessario cambiare i trattati internazionali come è stato ben spiegato in un articolo su Linkiesta del 30 luglio. Nel programma si parla di difesa degli interessi nazionali e in caso di contrasto Fitto assicura che si discuterà con la Commissione Ue e all’interno del Consiglio europeo. «Dialogo e non rottura. Devi governare».
Staremo a vedere. Lo spettacolo non è ancora cominciato. Le vie del potere sono infinite e sbalorditive, ma potrebbe essere solo tattica per non spaventare gli imprenditori italiani, i mercati internazionali, Washington, i governi europei, sbianchettare Orbán e Kaczynski.
Fitto assicura che non è così, che Fratelli d’Italia non è chiuso dentro il cordone sanitario dei sovranisti in cui sta ancora Salvini. «Non siamo sfasciacarrozze, rappresentarci in questo è una cosa provinciale e falsa», ripete Fitto. Vogliono rispettare le regole, anche se vogliamo cambiarle. Hanno votato per la presidente del Parlamento Metsola, eletto un loro vicepresidente. «Siamo pienamente dentro le dinamiche europee, ma abbiamo una posizione critica su diverse scelte. L’Europa deve fare meno cose, ma farle meglio». La Polonia, Dio, patria e famiglia? «La Polonia ha mostrato fedeltà assoluta alla Nato e generosità nell’accoglienza dei profughi. Sul resto ogni Paese fa le sue scelte in funzione delle sue specificità. Noi parliamo del nostro programma”.
Sperimenteremo sulla nostra pelle tutte queste buone intenzioni. Se vincerà il centrodestra. Per evitare avventure che l’Italia non può permettersi, sarebbe necessario che Meloni dicesse fin d’ora di essere disposta a cambiare la camicia di forza che blocca l’Unione europa nelle decisioni fondamentali: il voto all’unanimità. Ungheresi e polacchi, e per la verità quando fa comodo anche tedeschi, francesi e frugali, votano contro e bloccano tutto. Se non cambi questo meccanismo, rientra dalla finestra la prevalenza degli interessi nazionali su quelli comunitari.
Meloni ci stupisca, lo dica e magari aggiunga che vorrebbe Draghi super ministro dell’Economia con tutte le deleghe sui dossier più spinosi.