Evelyn Sukali ha 34 anni, vive a Monza, viene dal Congo, e su TikTok, dove ha 107mila follower, si presenta come «Immigrazione, cultura e storia dell’Africa, attualità, politica». L’altro giorno mi è comparso un suo video in cui, col tono con cui si racconta una fiaba romantica, spiegava che «il corteggiamento ruandese batte il corteggiamento di tutto il mondo».
Procedeva poi a illustrare questa romantica usanza, e la descrizione era quella d’uno stupro. Non è una valutazione secondo la mia sensibilità: è l’unica sinossi possibile di quel che riferiva, e che immagino sia vero (non m’intendo di Ruanda).
Lui, ci spiega la signora Sukali, quando decide che lei gli piace inizia a seguirla. «La prima reazione della donna è di scappare, quindi inizierà un inseguimento, l’uomo cercherà di correre più veloce, una volta raggiunta la donna inizierà una sorta di lotta, e il più forte vince. L’uomo dev’essere più forte e riuscire a buttare giù per terra la donna e deve riuscire ad assaggiarla. Se riesce ad assaggiare in quel momento lì, il fidanzamento può iniziare».
Ho visto levarsi grida di «cultura dello stupro» per episodi assai più blandi, e per la verità per episodi che non erano mai stupri effettivi, come quello narrato, ma sempre storie di parole, di approccio alle cose, di immagini pubblicitarie o cinematografiche. «Words are violence» è il concetto più fesso del presente, e lo si applica a più non posso.
Perché nessuno accusa la signora Sukali di cultura dello stupro? Perché nessuno vuole sembrare impresentabilmente di destra e convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili, nel più evoluto occidente (dove stuprarti per strada è reato e non rituale di corteggiamento, almeno non dai tempi di Franca Viola).
Lei stessa concludeva il suo video dicendo «Vi vedo già arrivare con dei commenti tipo “animali, incivili”. No, è solo un altro modo di vivere, altre usanze che vanno rispettate». Rispettiamo la cultura dello stupro nei luoghi in cui si svolge, sperando però di non importarla qui: ci manca solo di doversi mettere a correre per strada perché un disadattato ci reputa fidanzabili, con questo caldo.
Quello del rispetto delle culture differenti – un argomento che ovviamente ha un valore, contestualizzato – è l’alibi per puttanate che ci trasciniamo da un secolo all’altro, e l’accoltellamento di Salman Rushdie, la cui fatwa risale agli anni Ottanta, fa tornare in mente quelli che dicevano che, insomma, però, pure lui, ci vuole rispetto per le altre culture, sapeva che i musulmani si sarebbero offesi.
Chi pensa che «se l’è cercata» venga detto solo delle stuprate in minigonna non è stato attento quando Rushdie ha dovuto vivere decenni sotto scorta (e a giudicare dall’accoltellamento di ieri avrebbe dovuto continuare) o quando nella redazione parigina del giornale di satira Charlie Hebdo, che fa vignette maleducatissime su tutti sempre, sono entrati dei terroristi islamici facendo una strage.
Prometto di non stigmatizzare le altre culture, in cambio le altre culture potrebbero promettere di non stuprarmi, accoltellarmi, spararmi, quando manco loro di rispetto. Il problema culturale è però doppio.
L’islamico che ritiene che la tua vignetta o il tuo romanzo siano blasfemi e quindi si sente legittimato a ucciderti (o a tentare di) è la versione estremista d’un ragionamento, quello secondo cui words are violence, che in questi anni si porta molto tra i pensatori intellettualmente scarsi ma socialmente presentabili d’occidente. Era il 2015 quando ci prodigavamo in cancelletti #jesuisCharlie, era il 2016 quando quelli – impietosi come sempre – facevano vignette sul terremoto di Amatrice. Non siamo andati a sparargli perché non è una nostra usanza culturale (o lo è un po’ meno), ma eravamo quasi altrettanto offesi e pronti a cambiare idea, forse quei terroristi non avevano poi così torto, words are violence e words in fumetti non ne parliamo proprio.
È la base su cui Will Smith prende a schiaffi Chris Rock che ha fatto una battuta: sì, lui gli ha dato uno schiaffo, ma la battuta sua faceva altrettanto male (scusa non accampata da Smith, va detto: come sempre, i commentatori sono più scemi dei protagonisti).
Tra l’altro le migliori battute su questa falsa equivalenza le ha fatte proprio Rock, che in un monologo di qualche anno fa sbuffava esasperato «se parli di cyberbullismo significa che non t’hanno mai rovesciato un secchio di piscio in testa nei corridoi della scuola».
Ogni giorno sui social c’è qualcuno (di solito un maschio che tenta di accreditarsi come colui che sta dalla parte giusta della storia presso donne di sinistra che tenta di sedurre con metodi non ruandesi) che riferisce qualche gravissima conversazione origliata al bar o nello spogliatoio della palestra, tra uomini che dicono che a quella le farei questo e quest’altro (ma poi non lo fanno, trovandosi in un contesto culturale in cui non s’insegue la femmina per strada).
Ogni giorno quel qualcuno dice che sono discorsi così che legittimano la violenza (sì, buonanotte), e ogni giorno nei commenti qualcuno rilancia: quei discorsi sono già violenza. Ecco, no. I discorsi sono discorsi, la violenza è violenza. Sarebbe bene riuscire a ricordarsene anche senza bisogno che qualcuno si ritrovasse con un coltello in gola e pronto a fare da esempio a noialtri il cui ingrato lavoro è ribadire concetti che dovremmo dare per scontati.