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“La nuova classe dirigente del Pd non è sinonimo di gioventù”, Luigi Zanda e il futuro dei dem – Il Riformista

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A Luigi Zanda, già senatore Dem, viene pressoché unanimemente riconosciuto il ruolo di “saggio” nel tormentato dibattito che deve portare il Partito democratico al congresso e ad una complicata fase costituente.

Non si è ancora iniziato a discutere approfonditamente di contenuti, progetti, identità, che nel PD è già iniziato il posizionamento, più o meno palese, sui candidati alla segreteria. Senatore Zanda, in questo il Pd è incorreggibile?

Il prossimo congresso servirà prima di tutto ad eleggere il nuovo segretario, la fase costituente del nuovo Partito democratico, la riflessione sulla sua identità dureranno molto a lungo, supereranno certamente il tempo breve del congresso.

Lei è stato chiamato a far parte del Comitato costituente che dovrà redigere il manifesto del “nuovo PD”. Ma dentro il Partito costituente possono convivere culture politiche tra loro molto distanti senza che questo porti alla paralisi?

Sono onorato di essere stato chiamato a far parte del Comitato costituente. Penso anche che sarebbe stato più produttivo partire con un gruppo più ristretto al quale affidare la stesura di un documento base sull’identità del Pd, poi da discutere in Direzione, in Assemblea e al Congresso. Lavorare in un’assemblea di novanta persone non sarà facile. Quanto al merito. In un partito politico, identità e linea politica sono la stessa cosa. E da troppo tempo che nel Partito democratico non si discute di linea politica.

Una considerazione non da poco.

Un momento decisivo della vita di un partito politico è l’analisi dei suoi risultati elettorali, soprattutto quelli delle elezioni politiche. Al Partito democratico è mancata sinora una analisi complessiva profonda, svolta soprattutto in Direzione, sulle ragioni che hanno determinato in sequenza la grave sconfitta sul referendum costituzionale, l’umiliante 18% delle elezioni politiche del 2018, sino al risultato del 25 settembre scorso che per la prima volta nella storia della Repubblica ha portato al Governo del Paese la destra. Un grande partito politico inizia a definire la linea proprio dall’analisi dei risultati elettorali, e cioè dall’analisi dell’unico momento in cui la volontà popolare emerge con assoluta chiarezza. È dall’analisi della evoluzione politica del partito che il PD deve partire per risolvere i suoi grossi problemi politici che sono andati aggravandosi nel tempo.

E quali sono questi problemi?

La linea politica del Pd si è molto diluita dopo il nostro sostegno “di necessità” ai governi Conte2 e Draghi. Adesso, se vogliamo davvero iniziare una rigenerazione, dobbiamo capire bene cosa deve essere un partito di centrosinistra nell’Europa del Ventunesimo secolo e ripensare alla stessa nostra forma partito. Siamo ancora a favore del partito cui fa riferimento l’articolo 49 della Costituzione o propendiamo verso la più nebulosa formula del “movimento”? E ancora: come possiamo valorizzare gli organi del territorio mantenendo contestualmente tutto il valore di guida politica che deve avere la segreteria nazionale?

Cioè, senatore Zanda?

Sto rivalutando una formula che in passato non amavo: quella del centralismo democratico. Che altro non era che una seria valorizzazione del dibattito delle sezioni, degli organismi provinciali, regionali, ma che poi lasciava l’ultima parola alla segreteria nazionale. Ci sono scelte nelle quali debbono pesare le opinioni e le esigenze locali ma poi la sintesi deve essere lasciata ad una valutazione nazionale.

Ma c’è altro ancora?

Vi sono grandi questioni sulle quali è giunto il momento che il Pd si esprima, sempre a proposito della forma partito, come quella del finanziamento pubblico dei partiti politici, certo non come si faceva in passato con gli abnormi rimborsi elettorali. Siamo arrivati a un punto nel quale non si può più eludere il tema del finanziamento non dei partiti politici ma della democrazia italiana.

E poi?

Aggiungo un’altra considerazione. Il Pd deve essere capace, come lo sono stato in passato i suoi partiti fondatori, di far nascere una nuova classe dirigente. Rinnovare una classe dirigente non è facile. Non è sinonimo né di gioventù e nemmeno di cooptazione dall’esterno. Conosco molti politici giovani che hanno i vizi dei vecchi. In un partito politico la nuova classe dirigente si deve selezionare soprattutto sulla base della forza delle idee e sulla capacità di visione politica. Un dirigente politico dovrebbe avere le idee chiare su quel che serve all’Italia e all’Europa. E questo vale soprattutto per un partito come il Pd che ha uno straordinario bisogno di nuove sollecitazioni e di buoni progetti.

E il tema delle alleanze?

Nella fase di opposizione al governo Meloni, la questione delle alleanze del Partito democratico è un nodo molto difficile. Siamo arrivati a un punto di grave rottura. Le forze di opposizione non si sono tutte espresse allo stesso modo su un tema così rilevante come gli aiuti militari all’Ucraina.

Il 2023 è anche un anno elettorale. Si vota in grandi e importanti regioni, Lombardia e Lazio, oltre che in Friuli-Venezia Giulia e Molise. E nel Pd è già iniziato il balletto delle alleanze. C’è chi guarda ai 5Stelle di Conte e chi mantiene ancora aperto uno spiraglio al centro di Calenda e Renzi. Lei come la vede?

Sono questioni molto diverse, ma sono rapporti tutti complessi. Renzi viaggia molto, beato lui. Quanto a Calenda, ha una tattica politica molto chiara: interviene quotidianamente con interviste, dichiarazioni, dispensa giudizi su tutto e su tutti. Si dice riformatore, ma riformatore è una definizione generica. Mi sembra molto più precisa la tradizionale distinzione tra destra e sinistra. Quella di Calenda più che lotta politica mi sembra guerriglia politica.

E Conte?

Di Conte non riesco a fidarmi politicamente. Mi sembra una personalità che ha fatto della disinvoltura politica la sua cifra principale. L’uomo che ha firmato i decreti sicurezza di Salvini e che ha taciuto quando Salvini chiedeva pieni poteri? Oppure l’uomo che ha cacciato Salvini dal governo mettendogli una mano sulla spalla in pieno Senato? Il Conte che aumentava consistentemente gli stanziamenti per gli armamenti? L’uomo che appoggiava l’invio di armi all’Ucraina oppure quello che ha fatto cadere il governo Draghi proprio negandogli la fiducia sulle armi all’Ucraina e che adesso chiama “guerrafondaio” chi approva provvedimenti uguali a quelli che aveva approvato lui? A me sembra che Conte sia attento principalmente alla sua fortuna politica. Lo abbiamo visto cercare il voto di Ciampolillo nella speranza di guidare un Conte tre ed ora lo vediamo atteggiarsi a progressista alla ricerca di un suo spazio politico.

C’è chi sostiene che in questi dieci anni e più, a tenere insieme le varie “anime” del PD sia stato essenzialmente l’esercizio del governo, cioè del potere. E ora che al Governo non ci state più?

Adesso emerge il problema di fondo della ricerca di una identità politica del partito. Che rappresenta la sfida del prossimo futuro per una comunità che rimane molto ricca di personalità di valore e che tuttora rappresenta una pietra angolare del sistema politico italiano.

Il Pd non ha pagato dazio politico ed elettorale nell’aver innalzato la governabilità a totem inviolabile?

Guardi, io non ero favorevole al governo con i 5Stelle nel Conte due. Ma devo riconoscere che in quella fase il rischio di lasciare l’Italia a Salvini era reale. Quanto al governo Draghi, è nato, in una fase di grandi difficoltà per il Paese, su sollecitazione del presidente della Repubblica con alla guida la personalità italiana di maggior prestigio e valore. Il governo Draghi aveva una chiara cifra di solidarietà nazionale. Nella passata legislatura il Pd ha sempre governato più che per proprie scelte politiche strategiche, obbedendo ad una condizione di necessità.

Se dovesse dare un consiglio, per l’interesse del Paese e non di una sua parte politica, alla presidente del Consiglio in carica, quale sarebbe?

Non mi permetterei mai di dare suggerimenti alla presidente del Consiglio. Dico solo che Giorgia Meloni dovrebbe far cessare i vari controcanti dei suoi alleati. Se non dovesse riuscirci, prima o poi nella sua maggioranza si determinerà un incidente politico che metterà il Governo nei pasticci. Se la presidente Meloni non vuole restare prigioniera delle pulsioni autodistruttive della sua maggioranza, deve soprattutto mettersi a fare politica. Dovrebbe fare un bel discorso al Paese nel quale prende le distanze da tutto il becerume della vecchia destra. E dovrebbe portare tutta, sottolineo tutta, la sua coalizione verso posizioni di conservazione liberale ed europeista. Se riuscirà ad imporre questa linea, la sua prospettiva politica cambierà in positivo.

E l’opposizione?

Valgono considerazioni analoghe. Il sistema politico italiano dovrebbe tendere alla semplificazione. Oggi sia la maggioranza che l’opposizione sono frantumate ciascuna in tre tronconi. Troppi. L’Italia ha bisogno di una grande forza politica che io chiamo di sinistra, che Calenda chiama riformista e che Conte chiama progressista, ma che per il bene del Paese dovrebbe sapersi ritrovare in uno stesso contenitore politico facendo cessare la tragica competizione, egoistica e autodistruttiva, che oggi caratterizza le forze che si oppongono al governo Meloni.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

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