Instagram è solo il temporaneo “braccio armato” di una rivoluzione la cui data d’inizio potremmo fissare per convenzione l’11 giugno 1997, quando per la prima volta una fotografia è stata inviata da un telefono cellulare e poi condivisa in rete, ma della quale si coglievano i segnali ben prima. Susan Sontag, in chiusura del suo saggio Sulla fotografia (anno di uscita negli Usa, 1977), scrive che la fotografia rende «sempre meno plausibile riflettere sulla nostra esperienza sulla base di una distinzione tra immagini e cose» e auspica l’elaborazione di «un’ecologia non soltanto delle cose reali ma anche delle immagini stesse».
Ora, ammesso che questo sia vero, che distinguere «tra immagini e cose» sia diventato implausibile o addirittura impossibile, come potrà la scrittura non esserne toccata? In che modo possiamo usare la parola scritta senza tenere conto delle immagini che premono fuori e dentro di noi? Joan Fontcuberta, fra i primi a parlare di “postfotografia”, è arrivato a dire nella Furia delle immagini che «l’immagine non è più una mediazione col mondo, quanto un suo amalgama, se non la sua materia prima».
Ecco, Che ci faccio qui? è un tentativo molto rudimentale di rispondere – non certo io da sola – a questi interrogativi, pur sapendo che è difficilissimo descrivere un fenomeno in corso, soprattutto quando se ne è parte. Intanto, però, è possibile stilare elenchi, istituire confronti, calcolare misure, prendere distanze – con un atteggiamento che non esclude uno sguardo critico (ne è una prova quanto scrive Andrea Cortellessa alla fine di questo volume), ma che è in primo luogo quello di un geografo, o di un geometra.
Sicuramente in passato molti scrittori hanno amato e praticato la fotografia, ma il desiderio di documentare la realtà che muoveva Verga o London, nessuno oggi avrebbe il coraggio di rivendicarlo. La prospettiva è cambiata, e in modo irreversibile. (Sontag scrive che «la fotografia ha di fatto deplatonizzato la nostra concezione della realtà»). Senza contare, e non mi pare secondario, che quasi nessuno degli scrittori che scattano foto con il telefonino e le pubblicano su Instagram si definirebbe un “fotografo”, a differenza di Jack London o anche di Verga che, pur da dilettante, si dedicò alla tecnica della fotografia con applicazione e serietà.
E parlando ancora di confronti e di distanze, può essere interessante registrare che a una prima ricerca empirica la presenza “autoriale” di scrittrici e scrittori su Instagram è molto più diffusa in Italia che in altri paesi. In ambito anglofono, da cui pure ci si aspetterebbe grande attenzione alle potenzialità “creative” dei social, sono rarissimi i profili di figure note della letteratura che non siano autopromozionali. (Tra le poche eccezioni va citato almeno Teju Cole, nigeriano trapiantato negli Stati Uniti, che non a caso ha una formazione da storico dell’arte e dopo due romanzi ibridi – Ogni giorno è per il ladro e Città aperta – si è dedicato quasi esclusivamente alla fotografia e agli studi sulla 12 visualità.) E lo stesso si può dire per la Francia e per i paesi di lingua spagnola. È una traccia, mi sembra, da verificare e su cui indagare.
da “Che ci faccio qui. Scrittrici e scrittori nell’età della post-fotografia”, a cura di Maria Teresa Carbone, Italo Svevo Edizioni, 20 euro, 248 pagine