«Il lavoro a distanza è sempre più visto come un modello efficace in diversi paesi nell’ultimo decennio, principalmente grazie allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a supporto delle comuni attività lavorative quotidiane. L’emergere della pandemia di Covid-19 ha rappresentato un momento cruciale per l’adozione del lavoro a distanza in molteplici settori, con effetti positivi sugli impatti ambientali causati dal pendolarismo quotidiano dei lavoratori», scrivono sulla rivista internazionale Applied Sciences alcuni ricercatori dell’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, descrivendo gli ambiti e i risultati del lavoro di ricerca e indagine sui lavoratori a distanza nelle pubbliche amministrazioni in quattro diverse province italiane, con l’obiettivo di valutare le principali caratteristiche dell’utenza e i relativi benefici ambientali.
Analizzando le evidenze dello studio abbiamo modo di apprendere che «il lavoro agile e tutte le altre forme di lavoro a distanza, tra cui lo smart working, hanno dimostrato di poter essere un importante strumento di cambiamento in grado non solo di migliorare la qualità di vita professionale e personale, di rivitalizzare intere aree periferiche e quartieri considerati dormitorio ma anche di ridurre il traffico e l’inquinamento cittadino».
Dai numeri emerge che potrebbero essere evitati sei chilogrammi di emissioni pro capite al giorno, con un risparmio individuale quotidiano di ottantacinque megajoule di carburante, se si adottasse un regime di lavoro a distanza permanente. Il motivo? Nel nostro Paese circa una persona su due possiede un’automobile, cioè 666 auto ogni mille abitanti (siamo al secondo posto in Europa dopo il Lussemburgo per il più alto tasso di motorizzazione). I trasporti sono responsabili di oltre il venticinque per cento delle emissioni totali nazionali di gas a effetto serra, e quasi tutte (il novantatré per cento) provengono dal trasporto su gomma, con le automobili a fare la parte del “leone” (settanta per cento).
Oltre al taglio delle emissioni di anidride carbonica, un regime fisso di smart working comporterebbe anche la riduzione di quelle di ossidi di azoto, monossido di carbonio e polveri sottili, e influenzerebbe anche le performance ambientali delle attività extra lavorative: quasi un quarto (24,8 per cento) del campione intervistato ha dichiarato che, quando lavora da casa e necessita di fare spostamenti, lo fa in maniera più sostenibile usando mezzi pubblici o andando a piedi o in bicicletta, mentre l’8,7 per cento ha cambiato abitudini optando per un mezzo privato e il 66,5 per cento non ha modificato le proprie scelte.
Ciononostante, nel nostro Paese lo smart working non sembra spopolare come altrove. Perché? Al di là di qualche caso di management più tradizionalista, la ragione dipende dalle difficoltà nell’applicare il lavoro agile alle piccole imprese, di cui il nostro tessuto imprenditoriale è ricco. L’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, conferma che più le imprese sono piccole e meno sono adatte al lavoro agile.
L’84 per cento dei lavoratori delle imprese fino a cinque dipendenti svolge mansioni che non possono essere svolte in remoto, percentuale che passa al 56,4 per cento per quelle medie e al 34,2 per cento per quelle con più di 250 addetti. Attualmente si stima che i lavoratori pubblici a cui è data la possibilità di lavorare da remoto siano 570mila, il trentatré per cento in meno rispetto allo scorso anno. In particolare, l’utilizzo dello smart working è stato adottato nel 2022 solo nel cinquantasette per cento degli enti, a fronte del sessantasette per cento dell’anno precedente, con in media otto giorni di lavoro da remoto al mese.