«Ho l’impressione che siamo sempre completamente aperti l’uno con l’altro. Siamo in grado di andare d’accordo ed è facile avere un dialogo insieme. Siamo buoni amici». Luogo: Cremlino. Data: 22 marzo. Ma è il 2013. A parlare è Xi Jinping, che ha da poco ricevuto il primo mandato presidenziale ed è il suo primo viaggio all’estero. Ad ascoltarlo Vladimir Putin. Ma sono passati esattamente dieci anni, e trentanove faccia a faccia dopo, il timoniere e lo zar si chiamano «caro amico» diverse volte nel bilaterale più atteso degli ultimi tempi.
Anche se i rapporti di forza sembrano essersi completamente capovolti. Allora Xi era appena salito alla ribalta e di lui si sapeva poco. Anzi, lo si riteneva un riformista sulla scia di Hu Jintao. Di lì a poco avrebbe lanciato la Belt and Road Initiative, iniziando la progressiva riformulazione della dottrina di politica estera coniata a suo tempo da Deng Xiaoping, completata nelle due sessioni concluse nelle ultime settimane col passaggio dalla tradizionale cautela a una postura proattiva.
Una maggiore esposizione costringe però la Cina a solcare non solo i «mari tempestosi» descritti da Xi nei suoi più recenti discorsi politici, ma anche di «entrare nell’oceano», come ha dichiarato il colonnello Zhou Bo in un’intervista a Time. Ambendo a un ruolo globale e sentendosi accerchiata sul Pacifico, la Cina è costretta a navigare acque sconosciute, senza punti di riferimento e senza riuscire a toccare terra.
Lo Xi che è atterrato all’aeroporto di Vnukovo lunedì 20 marzo è invece considerato forse la figura politica più potente al mondo. Dopo aver ricevuto il terzo storico incarico presidenziale, di fronte a lui non c’era più un Putin con un malcelato senso di superiorità, retaggio di uno storico bilanciamento a favore di Mosca nei rapporti bilaterali.
Ora Putin è un leader che ha lanciato una guerra che pensava di vincere in poco tempo e che per ora è riuscito al massimo a non perdere. Ed è un uomo accusato di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale dell’Aia.
Per questo è ancora più significativo l’inusuale commento di Xi sugli affari di politica interna russa, fatto nel colloquio informale del primo giorno della visita di stato: «So che l’anno prossimo la Russia terrà le elezioni presidenziali. Sotto la sua forte leadership, la Russia ha fatto grandi passi avanti nel suo prospero sviluppo. Sono sicuro che il popolo russo continuerà a darle il suo fermo sostegno». Dichiarazione la cui prosecuzione naturale è il successivo invito di Putin a Pechino nel corso del 2023.
In un colpo solo, Xi manda diversi messaggi piuttosto chiari all’occidente. Primo: la Cina non sosterrà mai un cambio di regime in Russia. Secondo: se volete arrivare a un negoziato o a una soluzione politica dovete parlare con Putin. Terzo: il mandato d’arresto dell’Aia non conta.
D’altronde, nella visione cinese la tenuta di Putin è considerata cruciale. L’accresciuta dipendenza della sua Russia nei confronti della Cina è ritenuto l’unico vero vantaggio raggranellato finora dall’inizio della guerra in Ucraina. Per il resto, per Pechino ci sono stati sinora solo svantaggi: rapporto con gli Stati Uniti quasi compromesso, relazioni con l’Europa in bilico, vicinato asiatico sempre più allineato alla strategia di contenimento di Washington. Punto, quest’ultimo, dimostrato con così mai tanto vigore come dalla visita a sorpresa di Fumio Kishida in Ucraina. Il premier giapponese camminava per Bucha con Volodymyr Zelensky mentre Xi incontrava Putin al Cremlino.
Un simbolismo molto forte, utile anche per stabilire una connessione tra il fronte europeo e quello asiatico: manovra che Pechino ha provato sempre a scongiurare sia a livello strategico che retorico. A meno che non lo si faccia nella sua prospettiva anti-statunitense, che ammanta in maniera vasta il documento sulla partnership globale nella «nuova era» firmata da Xi e Putin. Quella prospettiva secondo cui sarebbero Stati Uniti e Nato a non volere la pace in Ucraina e a gettare benzina sul fuoco, in procinto di ripetere la stessa manovra egemonica e sintomo di una mentalità da guerra fredda anche in Asia-Pacifico.
Ecco perché la priorità di Xi è quella che Putin resti al suo posto. È l’unico vero asset «conquistato» negli ultimi tredici mesi, nonostante il non completo allineamento che il leader cinese ha tenuto anche a esplicitare.
Nell’articolo di Putin, pubblicato sulla stampa cinese alla vigilia della visita, si parlava ancora di «amicizia senza limiti» e «senza aree proibite», formule utilizzate nel precedente documento congiunto firmato il 4 febbraio 2022, in occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Pechino e venti giorni prima dell’invasione.
Nell’articolo di Xi pubblicato sulla stampa russa, invece, si parla di «amicizia duratura». Manco a dirlo, la versione che ha prevalso nel nuovo documento congiunto, pieno di formule lessicali familiari a chi ha a che fare con la retorica del Partito comunista cinese. Una prova, secondo William Hurst di Cambridge, che l’obiettivo della visita di Xi era soprattutto quella di mantenere lo status quo nei rapporti con la Russia. Mantenere l’allineamento che, come ha tenuto a sottolineare Xi, «non è un’alleanza». Ma senza far sembrare che la Cina sostenga lo sforzo bellico dell’indisciplinato partner di minoranza.
In questo scenario, non sorprende che chi pensava potessero emergere soluzioni concrete per una pace o un negoziato in Ucraina sia rimasto deluso. Così come Putin ha ottenuto da Xi una puntellata alla poltrona, Xi ha incassato da Putin un placet generico al documento di posizione sulla guerra del governo cinese.
Un documento altrettanto generico, che non entra tra le pieghe delle contrapposte rivendicazioni e che offre semmai una serie di principi teorici. Tra i quali, nella dichiarazione congiunta finale sparisce il riferimento esplicito all’integrità territoriale. Cioè il principio che più sta a cuore all’Ucraina, avvisata dagli Stati Uniti che qualsiasi pax sinica servirebbe solo a «congelare le conquiste russe».
In realtà, a Xi interessava e interessa soprattutto mostrare la sua manovra diplomatica sperando di proiettare un’immagine della Cina da «potenza responsabile» e «garante di stabilità». L’importante, dopo aver officiato l’accordo tra Iran e Arabia Saudita, è insomma soprattutto quello di far vedere di averci provato. Sperando che basti affinché l’Europa non chiuda la porta e inizi a insinuare qualche dubbio nella postura di Washington sul conflitto.
Nel frattempo, Xi prova anche a capitalizzare il suo aumentato ascendente nei confronti di Mosca. Dal punto di vista commerciale, dal vertice di martedì 21 marzo sono emerse nuove garanzie sull’aumento delle esportazioni di prodotti agricoli dalla Russia alla Cina. Ribaditi gli impegni sul Power of Siberia 2, il gasdotto in fase di costruzione che unirà entro il 2030 la Russia orientale alla Repubblica popolare passando attraverso la Mongolia. Il volume totale delle forniture garantito sarà di almeno novantotto miliardi di metri cubi, a cui si aggiungeranno ulteriori aumenti dell’export di gas naturale liquefatto e di petrolio, spesso a prezzi scontati. Riaffermato l’obiettivo di arrivare ai duecento miliardi di dollari di interscambio nel 2023: previsto aumento delle esportazioni russe di carne e cereali.
Non si tratta di vere novità, ma di promesse ribadite. Gli annunci più a effetto sono due. Il primo è quello della promozione dell’utilizzo dello yuan cinese per i pagamenti commerciali in Asia, Africa e America latina. Utile al tentativo di internazionalizzazione della moneta di Pechino, che vuole schermarsi dalle sanzioni degli Stati Uniti.
Il secondo riguarda invece la creazione di un organo di lavoro congiunto per lo sviluppo della rotta artica. Obiettivo strategico per la Cina che mira da tempo alla creazione della Via della Seta polare.
Ma in entrambi i casi, si tratta ancora una volta – almeno per ora – più di una lista di desideri che di programmi concreti. Emerge comunque la maggiore disponibilità di Mosca a concedere proiezione commerciale, finanziaria e strategica in aree tradizionalmente sotto la sua diretta influenza.
Significativo in tal senso l’impegno comune a tutelare l’Asia centrale dalle cosiddette «rivoluzioni colorate». Segnale che una regione cruciale dal punto di vista energetico e geopolitico pare destinata a un maggiore controllo di Russia e Cina, che nell’area sta progressivamente sviluppando una presenza anche nella dimensione della sicurezza. Oltre alle armi (più che prevedibile) mancano riferimenti anche ai semiconduttori, che si attendevano in molti come segnale esplicito di sostegno cinese a una Mosca praticamente esclusa dalle catene di approvvigionamento.
Certo, non sappiamo e non sapremo quello che Xi e Putin si sono detti e non vogliono far sapere all’esterno. Ma la forma ha un peso e dà un messaggio chiaro: quei due «buoni amici» del 22 marzo 2013 hanno oggi un rapporto sempre più sbilanciato. Il che li lega probabilmente ancora di più. Anche se c’è chi, all’orizzonte, vede un’amicizia che potrebbe trasformarsi in vassallaggio.